Avete presente quando ti dicono “Ritieniti fortunata ad essere nata in una famiglia come la tua.” ? Beh, io non sono fortunata. Mi chiamo Rosanna e sono cresciuta in una famiglia di delinquenti. Mio padre è al regime del 41Bis, mia madre non so neanche dove sia andata. Sono sola ed ho solo quindici anni. Devo dire che me la cavo, d’altronde crescendo in una famiglia come la mia, mi hanno sempre fatto capire come cavarsela facilmente. Beh, io non voglio essere come i miei, ma “vivendo in mezzo alla gente” bisogna sapersi fare rispettare. Mio padre era l’unico uomo di casa, e quello che ha sempre detto, a me e a mia madre, è che le decisioni le prendeva lui. Mia madre cercò di ribellarsi, ma il risultato fu sempre violenza. In quei momenti odiavo mio padre e da quando vidi i segni dei pugni che aveva in faccia mia madre, gli promisi che qualunque persona mi avrebbe fatto del male, io l’avrei uccisa. Ora non so più niente di mia madre, ma quella promessa non la dimenticherò mai. Ormai non andavo più a scuola e per compensare mi “rinchiudevano” nelle comunità, ma io scappavo sempre. Non mi piace condividere i miei pensieri con le assistenti sociali che ogni volta che racconti loro qualcosa che rispecchia la realtà in cui vivi, ti giudicano. Questo è il motivo per cui scappo sempre. Essendo minorenne non riesco a trovarmi un lavoro che mi frutti dei soldi, quindi, anche se non lo vorrei fare, rubo. Stamattina mi sono svegliata molto presto per fare una rapina, ma essendo alle prime armi mi metterò a fare la guardia fuori. Siamo entrati in una villa bellissima e io dovevo stare fuori, ma era impossibile non guardare dentro. Feci il giro della casa e mi accorsi che ero rimasta sola. Mi misi a piangere, non ero abituata a fare quelle cose, ma mi ritrovai in un a casa sconosciuta, per rubare. Mi consolai e ricomincai il giro per la casa. Andai al piano di sopra e percorsi tutto il corridoio fin quando non trovai il bagno. Aprii la porta e vidi un ragazzo che per poco non si mise ad urlare. Io gli dissi subito che non volevo niente da lui, solamente che mi facesse uscire da quella casa. Lui mi rispose di no e voleva sapere come fossi entrata altrimenti avrebbe chiamato la polizia. Allora ci sedemmo e io scoppiai nuovamente a piangere, raccontandogli la mia storia. Lui fu molto gentile, mi diede pure il suo numero di telefono e mi disse di chiamarsi Edoardo. “Se hai bisogno di parlare, chiamami. Non ti preoccupare, non ti denuncerò, ma questo deve rimanere un segreto.” Acconsentii e avrei fatto di tutto pur di non essere denunciata. Passarono mesi e io ed Edoardo continuammo a sentirci. Capii che provavo qualcosa per lui. Mi invitò molte volte a casa sua, ma io rifiutai sempre, avevo paura che io suoi genitori mi avrebbero rinfacciato ciò che avevo fatto. Così abbiamodeciso di incontrarci, per parlare da soli senza nessuno attorno. Quando lo vidi mi si illuminarono gli occhi, era così bello. Penso che quello sia stato il “giorno più bello della mia vita”, anche perché mi disse che provava dei sentimenti per me, ed io ricambiavo. Dal nostro primo approccio passò un anno e lui cambiò moltissimo, era molto geloso, non uscivo quasi mai di casa, ma d’altronde reagisce così perché mi ama e non vuole perdermi. Finalmente arrivò il momento di conoscere i suoi genitori. Suo padre era un giudice e sua madre un avvocato: erano due persone gentilissime e sempre disponibili. Edoardo era molto diverso e oltre ad essere geloso, era diventato violento, fino al giorno in cui al posto di dare un pugno all’armadio lo diede a me. Rimasi scioccata, mi riaffiorarono in mente gli episodi con i miei genitori e la promessa che feci a mia madre. Decisi di parlagli, per fargli capire quello che aveva appena fatto, ma lui rispose stringendomi la gola fino a che non avessi più il respiro, la mia pazienza superò il limite e di scatto presi un sasso d’arredamento e glielo lanciai in testa. Pensavo fosse morto, ma neanche il tempo di farlo che la polizia mi portò via. Stetti un po’ di giorni in carcere pensando a quello che avevo fatto, domandomi se Edoardo fosse ancora vivo. Finalmente arrivò il giorno del processo, e “casualmente” il giudice era il padre di Edoardo. Non ci fu nulla da fare: mi condannarono per tentato omicidio. Ma io dovevo fare sentire la mia voce, sapevo che era “legittima difesa”, però dovevo provarlo in qualche modo. Feci ricorso e mi concessero un altro processo con un altro giudice. Quando mi interpellarono gli mostrai i segni dei pugni che avevo ancora in viso e anche tutti i mobili che Edoardo aveva spaccato con la sua violenza. Dissi che l’azione che mi portò a fargli del male fu lo strangolamento e lo provarono anche delle mie amiche che testimoniarono quanta gelosia Edoardo provasse nei miei confronti, tanta da non farmi uscire mai. Quando uscii da quell’aula non mi importava più nulla, ero solo felice di aver mantenuto la promessa a mia madre e di aver detto tutta la verità. Passarono un paio di mesi prima che io sapessi se fossi stata libera e con grande sorpresa mi venne a trovare in carcere mia madre. Ci guardammo e ci capimmo subito, lei mi abbracciò e bisbigliando disse: “Sono orgogliosa di te, figlia mia”. Quelle parole mi riempirono il cuore anche perché in quel momento venni a sapere che ero libera e che avevano giudicato le mie azioni come legittima difesa. Ero al settimo cielo, ma c’era ancora qualcosa che non andava in me. Pensai a tutte le donne come me che vivevano questa situazione ogni giorno. Da quella giornata, insieme ad un altro gruppo di ragazze fondai un’associazione contro la violenza sulle donne, conosciuta ormai in tutto il mondo. Creai delle comunità, quelle da cui scappavo sempre, ma senza persone che potevano giudicare la situazione che avevi vissuto. Riuscii a salvare molte donne grazie all’associazione e al mio duro lavoro per fondarla. Oggi posso finalmente dire queste parole: “Sono fiera della nuova me”.
Scritto da Carla Astarita 2°D