L’horror in…2^G

Dopo aver analizzato in classe, guidati dal nostro prof. di Italiano, Pietro Ferrara, le caratteristiche del genere horror, avere steso le tante e sofferte bozze e la revisione e aver corretto gli “orrori” grammaticali, finalmente gli alunni della classe 2 G si sono cimentati nella realizzazione di 40 racconti del terrore; eccone i risultati. Buon divertime

La ragazza infreddolita

Era una fredda serata d’autunno, tirava un vento gelido e stava per piovere. Luca era nei pressi del cimitero camminando in modo abbastanza veloce per la fretta di tornare a casa. Non gli piaceva l’atmosfera del cimitero di notte, gli trasmetteva inquietudine.

All’improvviso sentì una voce molto debole che lo chiamava: “Mi scusi signore’’.

Luca si voltò.

La ragazza era pallida e aveva un vestito leggero che stonava con il clima freddo che c’era. Sembrava stanca e ansiosa, come se avesse camminato per tante miglia.

“Ehm… come posso aiutarti?’’

La giovane si avvicinò e Luca sentì che emanava un buonissimo profumo di rose, come se fosse appena uscita da un sogno profumato.

“Ti prego, puoi prestarmi il tuo cappotto? ti prometto che domani te lo restituirò. Sto cercando di tornare a casa, ma ho troppo freddo per proseguire. Temo di non farcela.’’

Luca non ci pensò due volte e glielo diede.

La ragazza lo ringraziò.

“Grazie mille. Domani farò in modo di ridartelo. Chiedi a qualcuno di me e te lo riporteranno, qua mi conoscono tutti. Io mi chiamo Serena.’’

Luca sentì qualcosa cadergli sulla testa. Alzò la testa e vide che stava per piovere. Quando riabbassò lo sguardo, la ragazza non c’era più.

L’unica cosa rimasta di lei era il suo profumo di rose, ma anch’esso stava lentamente svanendo.

Luca sembrava sconvolto, ma anche un po’ triste. La mattina dopo tornò davanti al cimitero per incontrarsi con Serena, ma non la trovò lì davanti. Luca cominciò a cercarla nei dintorni, ma senza risultati.

Il guardiano del cimitero lo vide e gli chiese cosa stesse cercando così intensamente.

Luca ricordò le parole della ragazza.

“Sto cercando una ragazza di nome Serena.’’ Il guardiano cambiò espressione: “Serena? ma quella povera ragazza è morta tre anni fa!’’ Luca, incredulo, andò a cercare la sua tomba. Il guardiano gli aveva detto che era circondata da fiori, soprattutto da rose. Quando trovò la tomba guardò la foto sulla lapide. Era proprio Serena, la rosa più bella di tutte.

Sopra la tomba c’era il giubbotto, Luca lo riprese e se ne andò.

SCRITTO DA :Cipolla A.

Il sole e le tre lune

Squillò la campanella della quinta ora. Iniziava l’ora di storia: “Buongiorno ragazzi” disse la professoressa entrando annunciando il suo arrivo con l’acuto tacchettio.

“Oggi avremo un ospite speciale, il capo della polizia Mario Latifondi.”

Entrò un uomo basso, pelato e snello in divisa: “Buongiorno giovani. Oggi vi parlerò di un caso ancora aperto, noto come il caso del sole e delle tre lune. In queste settimane sono stati ritrovati i corpi deceduti di cinque ragazzi della vostra età.

Ogni corpo è stato trovato in luoghi bui sempre alla base di una scalinata. Tutti i corpi avevano sul braccio destro un simbolo: un sole circondato da tre lune.

Dalle ricerche abbiamo scoperto che questo simbolo risale a circa 17.000 anni fa, sembra infatti che con un rituale si possa richiamare un mostro primordiale, detto Endocoro. Si suppone che l’assassino faccia parte di questa setta, ma non sappiamo chi sia o da dove venga. Occhi aperti ragazzi e muovetevi sempre in gruppo.”

Senza che me ne accorsi l’ora era volata. Preparammo gli zaini e mi fiondai a casa. Volevo capire di più su questa vicenda. Spalancai la porta d’ingresso di casa e scappai in camera. Come un tarlo il cado del sole e delle tre lune si era insinuato della mia mente e non mi abbandonava. Così giunta in camera afferrai il computer e cercai qualche notizia su questa vicenda. Trovai un sito dedicato al simbolo del sole e delle tre lune ed al dio Endocoro. Così scoprii che questo simbolo era ricorrente in alcune tombe sparse in varie parti del mondo. Queste tombe erano tutte uguali ed avevano una struttura molto particolare: erano delle piramidi a gradini scavate nella terra, ricoperte di marmo con il defunto adagiato al vertice della piramide. Dallo studio delle tombe gli archeologi scoprirono il rito di iniziazione per il dio Endocoro.

Lessi tutto il rituale, ma quelle storie per me non erano credibili, perciò decisi di provarlo io stessa: in un luogo buio dovevo disegnare su una lastra di marmo un sole con tre raggi, metterci delle candele accese e sussurrare per tre volte “notte e giorno”. E quindi spegnere le candele una ad una. Alla fine del rituale non successe nulla, tuttavia un brivido sottile di freddo mi percorse il braccio destro come un insetto dalle zampette gelide corresse dentro la mia carne.

I giorni seguenti passarono in un’inquietante normalità scossi saltuariamente dal solito brivido.

Il martedì seguente rimasi a scuola per un esame d’inglese. Quando finii era buio e stava piovigginando. Corsi verso il piano terra, ma improvvisamente un brivido scosse le mie gambe e ruzzolai per le scale; ad ogni urto sentivo più freddo finché un dolore straziante tagliò la mia gola: l’ombrello si era infilzato nella mia gola. Il mio sangue rosso e caldo zampillava come una fontana abbondante sui gradini freddi e bagnati.

Dall’oscurità del corridoio intravidi un figura muoversi. La mia speranza? la mia salvezza? Ma quando potei distinguere la figura le ultime gocce di sangue dentro il mio corpo si congelarono: la figura che incombeva su di me era disgustosa, alta e scheletrica ricoperta da serpeggianti figure umane imploranti. Non aveva né occhi né orecchie ma soltanto una bocca che ricopriva tutto il viso. Nel mio braccio destro ricominciò a formicolare il brivido gelido, ebbi così il tempo di vedere simbolo del sole e delle tre lune formarsi sul mio braccio. Era giunta la mia fine.

SCRITTO DA : Sofia P.

Lacrime di coccodrillo

“Marta, hai fatto un grosso errore e tra poco lo capirai”

“Non comprendo cosa ti abbia spinto a fare un gesto così meschino e violento, sappi che io non perdono.”

Io e Marta siamo sempre state migliori amiche, fin dalla nascita; abbiamo frequentato sempre le stesse scuole, avevamo lo stesso stile, gli stessi gusti sui ragazzi, eravamo identiche in tutto, tranne per una cosa: io ero decisamente più bella di lei e sembra che questa cosa l’abbia fatta ingelosire di molto, anche perché la gente ci trattava in modo differente.

Nonostante questo, Marta non ha mai dato segni di gelosia evidenti e ha sempre cercato di mantenere buoni rapporti con me.

Quel giorno mi svegliai svenuta sul divano nel mio spazioso salotto, con la tv accesa su Rai 1 che in quel momento trasmetteva il telegiornale, segno che erano le 13:00.

Girai la testa in uno stato di totale confusione per cercare il colpevole del mio risveglio e vidi il telefono che squillava rumorosamente sul tavolo, coperto per metà da fazzoletti usati; tolsi i fazzoletti dallo schermo del telefono per poter scoprire chi mi stesse chiamando e lessi il nome della mia migliore amica: “Marta”.

Presi il telefono e risposi alla mia migliore amica.

“Gaia! Gaia! Gaia!” esclamò felice Marta

“Non urlare, ti prego” implorai visto il mio mal di testa “Comunque cosa volevi?” domandai curiosa.

“Vuoi aiutarmi a sistemare i mobili delle mia nuova casa?” mi propose lei facendomi ricordare che si era appena trasferita nella casa accanto la mia e che la sera prima erano usciti con i rispettivi ragazzi in discoteca per festeggiare.

“Ovvio che ti voglio aiutare a sistemare i mobili, altrimenti che migliore amica sarei?!” Affermai con un tono di voce troppo alto e lei di tutta risposta fece una risatina acida. “A che ora vengo quindi?” “Quando preferisci” mi rispose con un tono un po’ sospetto.

“Ma tu ricordi cos’è successo ieri sera?” chiesi un po’ preoccupata del mal di pancia che diventava sempre più forte.

“Si, siamo usciti tutti e quattro insieme e forse hai bevuto un po’ troppo” mi rispose con troppa prontezza la mia migliore amica.

“Si, avrai ragione tu! Quindi ci vediamo dopo, Gaia?”

“Sì sì, ci vediamo” cercai di dire, ma venni interrotta da un’improvvisa nausea che mi costrinse a chiudere la chiamata e a correre in bagno.

Durante la corsa ero talmente presa dal momento, che non mi accorsi nemmeno del fatto che Giulio, il mio promesso sposo, mi aveva seguito fino al bagno e nel momento che mi rimisi mi tenne i capelli.

Mi accasciai sul pavimento. “Penso di aver esagerare ieri” sussurrai con una leggera risatina,

“Decisamente” rispose Giulio nonostante stessi parlando con me stessa. Nel frattempo mi passò una gomma alla menta. “Ho sentito dire che fa male lavarsi i denti dopo aver rimesso” mi avvertì.

“Grazie” lo ringraziai e iniziai a masticare la gomma.

“Adesso vado a cambiarmi per aiutare Marta con i mobili della sua nuova casa.”

“Sicura che te la senti?” domandò preoccupato Giulio.

“Tranquillo amore, starò bene” risposi cercando di essere il più convincente possibile nonostante nemmeno io credessi a quello che dicevo.

“Okay, mi arrendo” continuò Giulio dandomi una mano ad alzarmi e poco prima di uscire ci salutammo con un “Ti amo”.

Bussai alla porta della mia amica e mi aprì André, il suo ragazzo, che mi accolse provandoci spudoratamente con me.

“André, mi dispiace, ma io tra poco mi sposerò, è successo una sola volta e non dovrà succedere mai più” mi imposi con tono impassibile.

“Okay, okay; Marta è in cucina se ti interessa” mi rispose con tono acido.

Andai da Marta e sistemammo tutti i mobili di piccole e medie dimensioni. Pensando avessimo finito tirai un sospiro di sollievo, quando la voce di Marta mi fece ricordare che dovevamo ancora salire l’armadio dove teneva tutte le sue porcellane da collezione che aveva, quindi decisi di aiutarla un’ultima volta.

Io reggevo l’armadio da dietro, sulle scale, mentre André la parte centrale e Marta la testa.

Ad un certo punto, Marta e André lasciarono la presa dall’armadio e, per quanto mi sforzassi, il peso dell’armadio mi travolse perché mi sentivo estremamente debole.

Mentre il mio sangue sgorgava dalle mie ferite aperte e i miei organi, dalle spalle in giù, venivano schiacciati sentii urlare da Marta un discorso già preparato: “In questo modo impari a baciare il mio ragazzo! Ti eri già presa Giulio, il ragazzo di cui ti parlavo sempre e di cui ero innamorata persa, ti sei presa tutti i miei amici; mi hai fatto conoscere come “L’amica di Gaia”. Sai quant’è frustrante sentirsi dire dai propri genitori di essere più simile alla tua migliore amica? No, certo che no, perché tu eri la figlia perfetta per tutti!” si sfogò Marta mentre qualche lacrima le rigava il viso.

Dopo tutto questo discorso iniziai a piangere lacrime di coccodrillo e con le poche forze che avevo in corpo gli dissi: “Mi hai avvelenata ieri sera” con una voce quasi inesistente per poi chiudere gli occhi e addormentermi, per sempre…?

Ti avevo promesso che ti avrei fatto rimpiangere la tua scelta, per questo adesso sono davanti alla tua finestra, ricoperta di sangue, ad aspettare che ti addormenti.

SCRITTO DA : Siria M.

Un amaro destino

Tic tac, tic tac, tic tac …” Questo suono la tormentava.

“Basta!” gridò Sara scaraventando sul letto dei vestiti presi dalla valigia. Si sedette energicamente sul letto e notò che sul tappeto c’era una fotografia. Si immobilizzò per un istante, poi prese quel quadratino di carta con la mano tremante. La foto raffigurava l’ultimo Natale passato con i suoi genitori, sua sorella e i nonni: era ormai da diversi anni che Sara viaggiava in tutto il mondo per sfilare sulle passerelle più prestigiose e i rapporti con la famiglia si stavano indebolendo sempre di più.

“Tic tac, tic tac, tic tac …” Sara sospirò, non riusciva a dimenticare la conversazione con il suo manager. “In questo periodo ho notato che stai invecchiando in fretta” la provocò con un ghigno.

“Ho quasi trent’anni” replicò Sara confusa.

“Infatti, la tua carriera da modella si concluderà a breve” ribatté il manager ridendo.

Sara si alzò, prese la borsetta ed uscì dalla camera sbattendo la porta. Fece un sospiro e scappò al ristorante.

Dopo circa un’ora tornò in camera: pareti, pavimenti e mobili erano bianchi, sul muro di fronte al letto c’era un grande specchio alto dal pavimento fino al soffitto. Però l’oggetto più imponente era il grande orologio dorato appeso sopra il letto. La camera d’hotel di Sara sembrava un’anonima distesa innevata e l’orologio il sole che rendeva il tutto meno monotono.

“Tic tac, tic tac, tic tac …” il ticchettio continuava a dare fastidio: qualsiasi cosa che le ricordasse il passare del tempo le rievocava le parole del manager.

Era sfinita, andò a dormire.

“Tic tac, tic tac, tic tac …” Continuava la tortura.

Sara era sul punto di piangere quando il ticchettio cominciò ad amplificarsi sempre di più fino a farle fischiare le orecchie. Cominciò a sentire un pizzicore sul viso, percepiva una strana sensazione. Corse allo specchio; la sua pelle era raggrinzita, era come se fosse invecchiata.

“Tic tac” e poi un silenzio angosciante.

Mentre delle lacrime amare le rigavano il viso, Sara si pentì di tutte quelle volte che aveva provato a contrastare il tempo.

Si asciugò le lacrime con la mano tremante, ma quando il suo sguardo tornò sullo specchio, lo vide: Giancarlo, il manager, sorrideva e la guardava con uno sguardo pieno d’odio. Sara si voltò. Non c’era nessuno. Tornò a guardare lo specchio. Giancarlo le era accanto e stava estraendo dalla tasca un oggetto luccicante e affilato.

SCRITTO DA :Giulia C.

UNO SCHERZO?

“Sembra una vita che non vado a festeggiare con gli altri ragazzi del quartiere”.

Era la notte di Halloween e Gary aveva tanta voglia di uscire e chiedere le caramelle ai suoi vicini. Era da tanto tempo che stava a casa perché non voleva uscire e incontrare quei bulli che lo prendevano in giro. Era un ragazzo molto timido e impacciato, ma sapeva essere anche allegro e socievole con chi gli faceva simpatia. Si sentiva solo da troppo tempo, quindi la notte di Halloween gli sembrava la giusta occasione per poter finalmente tornare a giocare con qualcuno. Indossò il lungo cappotto nero di suo padre e si guardò allo specchio: era molto pallido e cosi pensò che non ci sarebbe stato bisogno di trucco, gli sarebbe bastato il berretto nero di suo nonno per avere un’aria sinistra.

Così si avviò verso il parco fra gli alti fusti degli alberi e fra i cespugli che spuntavano qui e lì. Arrivato al parco, vide tanti ragazzi, ma riconobbe soltanto i fratelli John e Harry Williams che non vedeva da tanto tempo e gli sarebbe piaciuto tanto giocare con loro perché avevano anche un pallone.

Gary si avvicinò a loro: “Ciao ragazzi, è da tanto che non ci si vede! Vi andrebbe andare in giro per le case per fare dolcetto o scherzetto e poi fare dei tiri a pallone?”

I due fratelli si guardarono: “Non ci ricordiamo bene di te… abiti qui?”

Così Gary si tolse il cappuccio.

“Sono Gary, abito nella casa in fondo al parco, forse è passato molto tempo da quando sono uscito di casa l’ultima volta…”

I fratelli si ricordarono di lui e insieme i tre ragazzi trascorsero una bella serata di Halloween: raccolsero un sacco di caramelle e dolciumi vari, alla fine fecero anche dei tiri a pallone. A un certo punto John ed Harry dovettero rientrare in casa e Gary si sentì di nuovo solo… sulla via del ritorno, si accorse che aveva la palla dei suoi amici. Così corse verso casa dei Williams. Stava per bussare quando da dietro la porta sentì delle voci: “Mamma, lo sai con chi abbiamo giocato oggi? Con Gary! Il ragazzo che abita nella casa in fondo al parco che non vedevamo da tantissimo tempo”. Gary era felice nel sentire che qualcuno non lo prendeva in giro, quando all’improvviso sentì l’urlo della madre dei fratelli “RAGAZZI! Mi state facendo uno scherzo di Halloween? Gary è morto tre anni fa, eravate troppo piccoli per ricordarlo? Se è uno scherzo, è veramente poco divertente”.

SCRITTO DA : Rosano A.

IL RECINTO DELLA MENTE

Il bosco…il luogo di cui ho sempre avuto paura.

Jenny stava guardando un film dal titolo  “La storia di Pelè. Più lo guardava e più voleva diventare come lui, peccato che quel sogno non si sarebbe mai avverato.

Il film finì, Jenny salì in camera sua, non si sentiva nessun rumore e questo lo terrorizzava non poco.

Si coricò, ma non aveva tutto questo sonno. Riscese ed ispezionò il DVD, nel riflesso vide una figura nera e senza faccia, ma con occhi bianchi e si presentava con un mantello nero. Si girò ma….nessuno era nella stanza. Decise di far finta di niente.

La casa era una villetta, con giardino con due porte per giocare a calcio e un’altalena. Aveva una recinzione con un cancello che la separava dall’infido bosco dagli alberi grossi e alti, fitto e sembrava che tacesse proprio come una persona.

Jenny rabbrividì al pensiero di quella figura nera, anche se preferiva pensare che forse aveva visto male.

I suoi genitori erano andati ad una festa organizzata da loro e sarebbero tornati verso l’una di notte. Controllò l’ora, erano ancora le ventuno e cinquantotto, sbuffò e riprese il DVD. A quel punto sentì un rumore, come un gemito e si affacciò. Prima niente, poi lo sentì ancora più vicino. Uscì e provò ad aprire il cancello, che però era chiuso a chiave. Provò a resistere, ma la curiosità era troppa. Pensò: sarà giusto o no scavalcare la recinzione?

Prima di scavalcare, però, doveva pensare a come farsi luce, dato che era notte. Allora prese la torcia, una con luce fredda per illuminare di più.

Si addentrò nel bosco, era tutto avvolto nel buio e lui aveva proprio una gran paura, una paura che gli faceva tremare le gambe.

Sentì di nuovo quel gemito. Sembrava arrivasse da sopra la sua testa.

Jenny pensò che non doveva farsi vincere dalla paura. Continuò a camminare. Ad un tratto un vento gelido lo assalì, vide la figura che scomparve subito dietro gli alberi…Rimase pietrificato quando vide riapparire la stessa figura del riflesso, ma stavolta con gli occhi rossi, come il fuoco della lava di un vulcano.

Nella sua mente scavava una sola domanda: ciò che stava vivendo era reale o uno scherzo della sua immaginazione?

SCRITTO DA :Riccardo A.

Tic-toc tic-toc

Sapevo che non sarei dovuta andarci, ma ormai era troppo tardi per ripensarci. Non sono stata per niente prudente. La mia prima settimana in una nuova scuola. Dove non conoscevo nessuno. Comunque ormai era andata. Entrai dal cancello, la scuola era deserta. Pioveva a dirotto e mi bagnai dalle testa ai piedi. La pioggia continua mi avevo alquanto infastidita, ma non potevo fare tardi, quindi felice o no, salii le scale. Vidi due collaboratori sordomuti. Un uomo e una donna. L’uomo ere alto, con gli occhi verdi e i capelli castani. La donna era di media statura, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Li salutai e cercai l’aula che mi aspettava. Mi sentivo sola, infatti lo ero. Anzi no. C’eravamo io, il mio orologio da polso che faceva “tic-toc” e i tonfi provocati dalle mie scarpe. Dimenticavo che, a farmi compagnia c’era anche il legno del pavimento che scricchiolava. D’improvviso iniziai a sentire delle voci. Provai ad ascoltare, ma non capivo nulla di ciò che stessero dicendo. Non capivo nemmeno da chi provenissero quelle voci. Erano sempre più vicine. Era diventato tutto normale, eccetto une cosa. Il “tic-toc” del mio orologio. Era sempre più forte e questo mi metteva ansia, molta ansia. D’un tratto sentii un suono straziante, proprio come una bomba. Contemporaneamente, le voci si spensero e le lancette del mio orologio si fermarono, scoppiando e gracchiando un rumore estremamente stridente. Dopo quel botto, terrorizzata andai in bagno. La porta era chiusa. La aprii. Non c’era nessuno. C’erano solo la luce spenta ed il mio cuore che stava per esplodere letteralmente. Credevo che entrare in quel bagno mi avesse distratto, ma non fu così. Entrare lì, aumento molto la tensione, così, per migliorare la situazione, pensai di accendere la luce. C’erano tre interruttori, ma solo uno avrebbe acceso la luce. Li provai tutti e finalmente la luce si accese. Ero finalmente un po’ più serena, fin quando la luce iniziò a lampeggiare e le lancette del mio orologio ripresero a girare velocemente, ma questo mi faceva paura, non mi faceva paura il legno che scricchiolava, non mi faceva paura quello strano silenzio, disturbato soltanto dal “tic-toc” dell’orologio e non mi faceva paura ripensare a quello strano tonfo straziante. L’unica cosa che mi faceva paura era il “tic-toc” di uno sconosciuto orologio a pendolo, sommato all’improvviso e inaspettato cigolio di una porta vicina. Cercai di non farmi prendere dal panico, così con molta cautela uscii dal bagno e visto che non mi restava altra scelta, iniziai a percorrere il corridoio davanti a me. Ora non mi restava che girare l’angolo e sarei arrivata a destinazione. L’aula di chitarra. Impaurita pensai fra me e me che con tutto quel silenzio se fosse successo qualcosa ed io avessi chiamato aiuto mi avrebbe sentito il collaboratore del piano di sopra, se non anche qualcun’altro. Così, più convinta della mia scelta, girai l’angolo. Sentii dei passi. Gridai “aiuto”, ma nessuno venne ad aiutarmi. Pensai di scappare dalla scala antincendio, ma non fu così. Mi ritrovai davanti a un uomo mascherato. Teneva impugnato un coltello insanguinato. Mancavo solo io. Il mio destino era stato segnato. Lo sapevo: sarei dovuta rimanere a casa ed evitarmi i vestiti bagnati e tutto il resto. Da quel momento, il mio cuore si fermò, proprio come gli orologi a me vicini

SCRITTO DA :Claudia P.

Ricordi

Era la vigilia di Natale, il primo Natale che Ginevra avrebbe trascorso senza la sua adorata nonna.

Ginevra viveva con la nonna da quando, all’età di cinque anni, aveva perso entrambi i genitori in un tragico incidente stradale. Da quel momento la nonna rivestì il ruolo di madre, padre e migliore amica.

Nonna e nipote adoravano il Natale: amavano cucinare dolci natalizi, decorare casa e farsi dei regali a vicenda. Questa volta Ginevra si limitò a montare l’albero in salotto e a decorarlo con delle semplici luci: “A cosa serve un albero di Natale se sotto non ci sarà alcun regalo?” pensava.

Quella sera era seduta sul divano, davanti al caminetto acceso, e sfogliava l’album con le foto di ogni Natale trascorso con la nonna. Piangeva, singhiozzava e stringeva forte la bambola Sally: regalo della nonna per il primo Natale che Ginevra aveva trascorso senza genitori; da allora la custodiva gelosamente.

Voltando le pagine dell’album, vide una foto risalente a quattordici anni prima. Aveva appena aperto un pacchetto rosso con in cima un fiocco dorato. Dentro c’era una bella bambola di pezza dai capelli biondi e gli occhi blu come il mare e con un vestitino rosa confetto.

“Ti piace?” le chiese la nonna.

“È meravigliosa!” rispose Ginevra. “Perché non mi fai una foto?”.

“Va bene!”.

Per la prima volta da alcuni mesi Ginevra sfoggiava un sorriso smagliante. Anche la nonna sorrise. “Era da tanto che non ti vedevo felice”.

Improvvisamente le luci ed il camino si spensero. Il cellulare non si accendeva e le tende non si aprivano.

Ginevra provò a restare calma e a ragionare, ma era impossibile.

Ad un tratto le lucine dell’albero si riaccesero. Tra la penombra Ginevra riuscì a scorgere un pacchetto rosso con in cima un fiocco dorato. A quella visione venne percorsa da un brivido lungo la schiena. Era immobile, non sapeva cosa fare.

Il pacchetto si aprì. Una massa nera dalla forma indefinita ne striscio fuori. Tutte le fonti di luce si spensero. La ragazza era paralizzata dal terrore, non sapeva dove fosse ciò che era uscito dal pacchetto.

Si riaccesero le luci, il camino rimase spento, ma si sentiva ancora il calore. Ginevra vide la sua bambola sollevarsi e poi cadere silenziosamente sul pavimento. Tentò di avvicinarsi, ma quando la bambola scattò in piedi fece un passo indietro. Sally si diresse al camino a piccoli passi, prese un pezzo di carbone ardente e lo scaraventò contro l’albero di Natale che avvampò rabbioso in un istante come un fiammifero appena accesso.

Ginevra provò a scappare, ma non riusciva a muoversi: era come se qualcuno la stesse tenendo, impedendole di fuggire.

La bambola svanì lasciando bruciare l’appartamento con Ginevra e tutti i ricordi ad essa legati.

SCRITTO DA :Giulia C.

SANDRA, THE DOLL

“Cavolo” esclama Giorgia sfracellando un timpano a Noah.

“Ooh non urlare!” colloquia Noah.

“Scusa, è che sono infuriata, non ho trovato nessun regalo per Alessia! È troppo difficile per me spostarmi da qua visto che abito in mezzo al bosco, chissà che figura farò al momento di aprire i regali!” replica Giorgia.

“Ma a proposito, perché hai una casa in mezzo al bosco?” domanda Noah.

“Boh non lo so, è figo ma allo stesso tempo spaventoso…”risponde Giorgia.

“Perché?” domanda Noah.

“Perché ogni volta che esco o torno a casa, dovrò attraversare questo fitto bosco… e se un animale selvatico mi attaccasse all’improvviso?!”.

“Vabbè che esagerat-” Noah incespica per colpa di una scatola in mezzo ai piedi.

“Ahia!” esclama Noah.

“Che cos’è?” domanda incuriosita Giorgia mentre aiuta Noah ad alzarsi.

“Una scatola” risponde Noah.

“Apriamola!” disse Giorgia ancora più incuriosita di prima. Giorgia prende la scatola, rimuove lo scotch prima da una parte e poi dall’altra, toglie il coperchio e…

“Seriamente?” esclama Noah.

Giorgia solleva una bambola, la bambola era un po’ inquietante, ma giusto un po’, aveva gli occhi storti e spalancati e un sorriso che gli partiva da un orecchio all’altro.

“ODDIO CHE FORTUNA!”

“Ma che cazzo ti urli?!” grida Noah

“OOOHH, le parole Noah, moderale.” risponde Giorgia.

“Ok mamma, comunque, perché sei cosi emozionata per una bambola? C’è pure una lettera!”

“Dove?” domanda Giorgia.

” Dentro la scatola.”

“Ah ecco” risponde Giorgia, “Chiunque trovi questa bambola, la lasci dove l’ha trovata” legge Giorgia.

“Che strano…e se fosse un avvertimento?” domanda Noah.

“Seriamente tu credi a queste cavolate?”

“Perché dici così?” domanda Noah

“Coraggio! Non dirmi che ti spaventi di questa lettera!” risponde Giorgia.

“No, e che mi ricorda una scena di un film che avevo visto circa tre giorni fa…e non è finita bene.” spiega Noah.

“Noah, i film non sono mai veri e comunque è solo una bambola, che cosa potrebbe mai accadere?” chiarisce Giorgia,

“Comunque sono così emozionata perché può essere un regalo per Alessia.”

“Vero!” esclama Noah

“Muoviamoci, va, che sennò si fa tardi.” risponde Giorgia.

*Dopo la festa*

Erano circa le 23:00.

“Grazie sorellona per la bambola! E grazie anche a te Noah” ringrazia la piccola sorellina di Giorgia, Alessia.

“Di nulla” rispondono Giorgia e Noah.

*Alessia va a dormire con la sua bambola*

*Il giorno dopo*

“Ahhh” sbadiglia Giorgia mentre si stira. “una nuova giorna-” Qualcosa impedisce a Giorgia di terminare la frase, un rumore: “Cos’era quel rumore?” pensa Giorgia.

“Alessia sei stata tu?” Nessuna risposta.

*Un paio di minuti dopo*

“Un altro rumore? Forse è meglio se vado a controllare, ma non ho voglia di alzarmiiii” pensa Giorgia, ma dopo due minuti si alza per controllare.

“AHHHH!” strilla Giorgia disperata mentre osserva il piccolo corpo di Alessia senza vita.

“Ma che urli? Ti ho sentito da la sott-, MADONNA MIA- CHE COSA È SUCCESSO?!”

“Non lo so! L’ho trovata così giuro!”

“Credi sia stata…”

“Cosa? Sei serio?! Credi che sia stata la bambola?”

“E chi altro sennò? Il tipo della lettera ci aveva avvertiti…”

“Forse hai ragione…” confuta Giorgia.

“Ecco fatto” commenta Noah dopo aver seppellito la bambola con la lettera.

*Il giorno dopo verso le 14:00*

Giorgia è venuta a trovare Noah.

“Ehy Noah? Come…” Giorgia osserva il corpo di Noah, il suo unico amico, per terra, senza vita.

“Perché a me?! Sono destinata a rimanere da sola forse?!”

“Is your turn…” Parla una voce sconosciuta.

“Cos-HEY! Chi va là!?”

“Is Sandra, the doll”

“AHHHHH!” Urla Giorgia con tutte le sue forza, ma solo dopo si accorge di aver perso la vita.

SCRITTO DA : Helena A

IL RAGAZZO STRANO

Jack è un ragazzino di 14 anni e non vede l’ora di tornare a scuola. Era il 20 Agosto  e nella casa al mare dei suoi nonni si annoiava un po’. Dopo le vacanze estive, Jack era pronto per il primo giorno di liceo e non vedeva l’ora di conoscere i suoi nuovi compagni. Il giorno dopo la scuola cominciò. Nella sua classe c’erano 32 compagni, tutti erano simpatici e divertenti, però si accorse che c’era un ragazzino senza amici e molto chiuso in sé. Quindi lui decise di andare a parlare con lui e fare anche amicizia. Il suo nome era Paolo e andavano tutti e due d’accordo. Dopo una lunga chiacchierata, inaspettatamente Paolo chiese a Jack se dopo la scuola poteva venire a casa sua. Jack, felicissimo, accettò. Dopo la scuola, Paolo e Jack vanno a casa a piedi visto che era a 400 metri dalla scuola. Arrivato alla casa di Paolo, Jack si meravigliò della casa enorme ma anche molto vecchia dove abitava Paolo.

Jack, quando entrò a casa, vide subito la mamma di Paolo, era con il viso pallido e gli occhi di un colore particolare, simile al giallo e dei vestiti tutti neri. A Jack Paolo stava molto simpatico, però lo credeva un po’ strano da come si comportava e anche dal suo aspetto. Jack però non ci fece attenzione. Dopo aver pranzato Paolo invitò a Jack a fargli vedere la sua casa; era enorme con un sacco di quadri strani che lo fissavano e anche dei lampadari molto particolari, la cosa più strana che lui vide della casa di Paolo è stata una stanza. Questa era tutta rossa ma non c’ era niente. Lui chiese a Paolo a cosa servisse, ma lui non rispose. Jack pian pian sentiva che qualcosa non andava lì dentro; era molto strano e piano piano Paolo si comportava sempre di più in modo strano. Dopo che si sono messi a fare i compiti per il giorno dopo di scuola, Paolo chiese a Jack se voleva vedere cosa c’era dentro la stanza rossa. Jack rispose di sì, Paolo e Jack entrano e a un certo punto diventa tutto buio e Paolo se ne andò dalla stanza. Jack era rimasto da solo al buio e la porta per aprire la stanza era chiusa. A un certo punto lui sente qualcosa toccarlo e…

SCRITTO DA :Giovanni A.

Bambola o demone?

Un rumore assordante, mille goccioline trasparenti si attaccarono alla finestra. Un potente lampo si scagliò sulla terra. Fuori era un vero pandemonio.

“Andiamo è tardi” gridò mia mamma dal piano di sotto. “La solita frettolosa” pensai. Mi infilai l’ultima forcina nel toupet, salutai la mia bambola Jenny e mi precipitai al piano di sotto. Arrivai in cucina. “Mamma, mi sono dimenticata di prendere l’acqua, aspettami un attimo in salotto” le urlai “Va bene Carla, hai solo due minuti, siamo già in ritardo” rispose secca mia mamma. Quando, improvvisamente mi sembrò di sentire una parola proveniente da camera mia. Solo una. Fredda, breve, ma intensa. “Morte”. Questa parola non mi piacque per niente. Allora provai a trovare una spiegazione razionale a tutto ciò. “Forse i vicini stanno guardando la TV ad alto volume. È già successo una cosa simile qualche giorno fa, chi dice che non possa succedere una seconda volta?” Pensai tra me e me.

Improvvisamente qualcosa spezzò il silenzio. “Carlaaaaa” blaterò per la seconda volta mia madre. “Mamma, tu non hai sentito nulla?” Le chiesi con voce spaventata “No Carla, cosa avrei dovuto sentire?”

“Nulla, nulla” le risposi io. Posai la bottiglia di acqua in frigo e raggiunsi mia mamma, che nel frattempo era andata ad accendere la macchina.

Tutto il tempo della strada mia mamma mi fece il solito ripassino delle regole. “Sii educata, porta rispetto agli adulti e non combinare guai.”

Non vedevo l’ora di arrivare a danza, almeno lì, nessuno mi avrebbe dato lezioni di galateo. Ogni volta che vado a danza mi sento libera, con le compagne mi trovo molto bene e il maestro è severo, ma simpatico.

Decisi allora di raccontare alle ragazze della mia bambola Jenny.

“L’altro giorno ero sola a casa, anzi no, ero con Jenny, la mia piccola bambola. Stavo prendendo una gonna dall’armadio, ma inciampai su Jenny, e per sbaglio mi chiusi dentro l’armadio con lei. Non riuscivo più ad aprire l’anta, avevo bisogno di qualcuno che mi aprisse da fuori. Aspettammo circa quattro ore l’arrivo di mia mamma, che, nel frattempo, si era molto preoccupata. Ma io ero tranquilla, ero con Jenny…”

“Ah, e poi un altro giorno mi stavo ann…” non ebbi il tempo di completare che… “Va bene, basta, non mi interessa nulla” Cominciò a dire Chiara sgarbata.

“Sei rimasta piccola” continuò Sally.

“Ma perché non provi a crescere e giochi con noi ai videogiochi?” Concluse infine Mia.

A quelle parole sentii un vuoto dentro il cuore. Gli occhi cominciarono a riempirsi di lacrime amare. E il mio sogno, pian piano, come un castello di carte, cominciò a cadere, davanti ai miei occhi.

Quando tornai a casa c’era una sola cosa da fare: sfogarsi.

Presi Jenny, la buttai per terra e cominciai a calpestarla. Fu un momento di grande sfogo, un momento di incoscienza.

La sera, per non lasciare Jenny in mezzo alla stanza, decisi di buttarla nella pattumiera di fronte al letto. In quel momento mi sentivo bene. Non vedevo l’ora di tornare a danza per raccontare alle mie compagne che mi ero sbarazzata della bambola. Verso le dieci mi addormentai, senza alcuna fatica. Alle Undici e mezza, però, qualcosa mi svegliò. Un ticchettio, proveniente dalla pattumiera. “Sarà il sonno che mi gioca brutti scherzi” pensai. Anche se in realtà, quello non era affatto uno scherzo. A mezzanotte precisa, la finestra si spalancò, cominciando a sbattere. Improvvisamente, una piccola luce rossa si alzò in cielo e diventò più grande della mia paura e ansia messe insieme. “Ciao Carla, ti ricordi della parolina che ti ho detto stamattina?” Disse con voce tranquilla Jenny. La mia piccola bambola si era trasformata in un grande e malefico demone.

SCRITTO DA :Giorgia C.

Il gattino nero

Una bambina di nome Emily con la sua famiglia andò a trovare i nonni, ma si accorse che c’era anche suo cugino Johnny che era lì perché i suoi genitori erano partiti per un viaggio di lavoro.

Johnny non poteva andare con i genitori, non aveva un posto dove stare e così i nonni di Emily avevano deciso di badare a lui.

Johnny era un tiranno per Emily perchè gli piaceva fare scherzi.

La nonna diede ad Emily la stanza della sorella di sua madre anche se era un poco piccola e a Johnny un’amaca in soffitta.

Emily era andata a dormire, ma, all’improvviso, sentì un rumore; pensava fosse uno scherzo di Johnny ma lo sentì di nuovo e iniziò a tremare; si mise sotto le coperte e cercò di dimenticare quel rumore.

La mattina dopo c’era una bella giornata e tanta neve; tutta la famiglia era andata in montagna a giocare con la neve, tranne Emily che non vi era andata perché aveva ancora in mente i rumori della sera prima.

L’unica scelta era di andare da Johnny per chiedergli se aveva sentito anche lui dei rumori.

Johnny le disse che i nonni gli avevano dato quella stessa camera prima di lei.

La camera era bella, ma di notte diventava spaventosa e piena di rumori strani. Così lui aveva deciso di prendere un’amaca e di andare in soffitta dove finalmente era riuscito a dormire senza sentire  più quei rumori.

Emily, di sera, tornò in quella camera. Sentì qualcuno entrare, ma era solo il papà che era venuto a chiudere la finestra.

Poi, diede un bacio a Emily, uscì e scese le scale. Ma Emily sentì di nuovo quel rumore; siccome era stanca e voleva dormire, andò a dare un’occhiata e vide un gatto nero col pancino bianco e lo chiamò. Il gatto se ne andò.

Il giorno dopo Emily chiese ai nonni notizie del gatto nero, ma loro risposero che non avevano gatti.

I nonni le raccontarono che la sorella di sua madre, che si chiamava Laura, aveva avuto, tanto tempo prima un gattino nero col pancino bianco che era cresciuto con lei ma che non poteva essere lo stesso, perchè era passati troppi anni.

Per Emily era il momento di tornare a casa, salutò i nonni e suo cugino ma mentre era in macchina, vide il gatto nero col pancino bianco che la guardò fisso.

Ad Emily sembrò che il gatto la stesse salutando.

SCRITTO DA :Federico C.

LA BAMBOLA

C’era una ragazza di nome Silvia che faceva la babysitter. Un giorno arrivò un uomo molto strano davanti casa sua con una bambola in mano. Silvia pensava che fosse uno scherzo visto che era quasi halloween. Andò ad aprire la porta per l’uomo e lui iniziò a parlare.

“Ti prego, puoi fare da babysitter a mia figlia?’’ chiese sorridendole negli occhi.

Silvia rispose: “Signore, quella è una bambola.’’

L’uomo continuò ad insistere: “Ti prego, pagherò il doppio!” Silvia ci ripensò. “E’ solo una bambola, posso stare al gioco.’’ pensò.

Rispose di sì e il signore se ne andò lasciandole la bambola.

Dopo che Silvia ebbe lasciato la bambola sul divano, andò in camera sua per cambiarsi. Quando tornò, vide la bambola sul tavolo della cucina! Silvia era sconvolta e spaventata, però questa volta non toccò la bambola.

Silvia voleva tagliare delle zucche per halloween, quindi le prese da una busta e prese anche un coltello. Non sapendo come tagliarle, cercò delle idee sul suo telefono. Trovò qualche idea, ma appena posò il telefono vide che la bambola aveva in mano il coltello sporco di zucca!

Quando guardò le zucche vide che erano state intagliate con delle facce sorridenti. Silvia era terrorizzata. Decise di tenere d’occhio la bambola, ma visto che non stava facendo niente andò in bagno per lavarsi la faccia. Quando tornò in salone, vide che la tv era accesa…e la bambola era seduta a guardarla.

Silvia avrebbe voluto gridare in preda all’orrore, ma la voce non uscì. Finalmente erano arrivate le sei, il signore tornò, la pagò e riprese la bambola.

Poco prima di uscire, quell’uomo misterioso si fermò a guardarla, e Silvia, terrorizzata, vide la bambola ruotare la testa verso di lei e con una voce stridula le disse: “Grazie per aver badato a me, mi sono divertita tantissimo.” L’uomo e la ‘’bambola’’ se ne andarono. E l’urlo di terrore che Silvia aveva trattenuto Stavolta uscì come un fiume in piena che distruggeva gli argini: ormai era precipitata a capofitto nella pazzia.

SCRITTO DA :Cipolla A.

L’UOMO NERO

Ero a casa da solo. Mia madre doveva andare al supermercato a prendere l’acqua. Quindi io decisi di rimanere a casa. Era buio fuori e le strade erano desolate. A me non piaceva tanto rimanere a casa da solo, ma per poco tempo sinceramente ci potevo stare da solo a casa. Erano passati 20 minuti, ma ancora la mamma non era  tornata a casa. A me sembrava molto strano che non tornasse visto che il supermercato era a 300 m da casa e doveva prendere poche cose.

All’improvviso vidi dalla finestra un uomo con una giacca di pelle nera e dei guanti neri alle mani. Era piuttosto alto e mi fissava con uno sguardo molto strano. Rimase a guardarmi per 1 minuto e poi se ne andò. Dopo 5 minuti, mentre stavo giocando alla play, sentii aprire la porta. Quindi andai sopra in salotto, ma non c’era nessuno. Credevo che fosse stato il vento, quindi non ci pensai.

Subito dopo la mamma entrò a casa con un aspetto molto strano e inquietante e la pelle più pallida del solito. Le chiesi se stava bene, ma lei non mi rispose e io andai a letto. A un certo punto ho sentito qualcosa sotto il letto, ma non ci pensai e mi misi subito a dormire. Però, alle 2 e mezza di notte, sento un rumore fortissimo da sotto il letto. Quindi un po’ stordito dal sonno decisi di controllare, mi abbassai ma non vidi nessuno. Però c’erano 2 guanti neri che erano identici a quelli del signore. Questa cosa mi sembrava un po’ strana, quindi andai nella camera della mamma. Lei non c’era. Avevo molto paura e all’improvviso le luci del salotto si accesero. Ero terrorizzato dalla paura, sentivo che qualcuno stava salendo le scale, ma all’improvviso vidi l’uomo nero che mia ha detto: “Figliolo, va’ a letto”

SCRITTO DA :Giovanni A.

LA “TRAPPO-FABBRICA”

Erano anni che vedevo la fabbrica da casa mia.

Casa mia era una villetta alta più o meno come la fabbrica, quasi dieci metri. aveva tre piani divisi in sezioni: il primo dedicato alla cucina e al salotto, il secondo per le camere da letto e il terzo, che era una mansarda, aveva una grande stanza dei giochi e la mia camera con una finestra rotonda da cui vedevo, appunto, la fabbrica.

Quella fabbrica era la mia migliore amica nei giorni neri, perché mio padre era morto proprio lì, e quindi io pregavo per lui. Ogni volta che pregavo piangevo. Quando era in vita mio padre lo odiavo perché beveva sempre, ma ora che non c’era più, lo rimpiangevo e capivo che non dovevo odiarlo perché era una persona con un cuore d’oro.

Una notte non riuscivo a dormire…c’era un pensiero che mi tormentava: vai alla fabbrica, continuava a ripetere la mia mente. Poi, finalmente, presi sonno e mi addormentai. Verso le quattro mi svegliai di soprassalto. Deciso mi alzai e mi diressi verso la fabbrica. Non mi ero cambiato, ero in pigiama, ma indossai soltanto calzini e scarpe. Arrivato davanti alla fabbrica mi misi faccia a terra e pregai, nello stesso punto in cui quel maledetto giorno che persi mio padre le fiamme ebbero inizio.

Sentii un fruscio, alzai gli occhi e davanti a me si innalzò un tornado nero con due pupille bianche. Prese forma e diventò un uomo. A quel punto io lo riconobbi. Mi voleva uccidere oppure semplicemente voleva unirsi a me?

Scappai, ma era tutto inutile. Lui conosceva ogni angolo della fabbrica. Così corsi fuori dalla fabbrica e scappai verso la ferrovia vicina, che era il luogo preferito di mio padre, perché guardando i treni fantasticava di fare lunghi viaggi.

Salii sul primo treno fermo su un binario morto e una voce disse: “Mi sono suicidato perché non mi accettavi, ora sono io che voglio stare con te… starai per sempre con me!” Mi girai…era mio padre!!!

SCRITTO DA :Riccardo A.

Da sogno a incubo

Mi svegliai. Tutto buio. L’odore di gas invadeva la mia stanza. Un caldo soffocante riempiva ogni angolo della camera. Un rumore di passi rimbombava nella mia testa. Improvvisamente la porta della stanza si aprì, un freddo gelido entrò e…” Auguri!!” esclamarono in coro i miei genitori e mio fratello John. Il tanto atteso giorno del mio compleanno era finalmente arrivato. E, come voleva la tradizione, la colazione andava fatta rigorosamente a letto. Proprio per questo mia mamma teneva in mano un vassoio contenente tanti dolcetti e cioccolatini di tutti i tipi. Mio padre aveva in mano una busta con dei fiori, e mio fratello un pacco regalo rosso e bianco con un grande fiocco. Entrarono nella stanza, presero tre sedie e si sedettero accanto a me. Gustammo insieme la squisita colazione che mi avevano portato i miei genitori. Fuori c’era un meraviglioso sole splendente. Era la giornata ideale per festeggiare il proprio compleanno. Ma non sarei mai riuscita ad immaginarmi che quel giorno mi avrebbe cambiato la vita.

“Auguri da parte nostra” mi dissero i miei genitori e John porgendomi il regalo. Tolsi con furia la carta e, aperto il pacco, cominciai a gridare, urlare e strillare. Mi alzai di scatto dal letto e corsi per tutta la casa gridando “siiii” “siii” “siiii”.

Ero emozionantissima, delle lacrime di felicità mi bagnarono il viso rendendolo umido e appiccicoso. Sognavo da sempre quel piccolo animaletto. Era di un meraviglioso color nuvola. I suoi occhi neri mi guardavano sorpresi. Le zappette erano piccole, morbide e rosa cipria.

Assomigliavano allo zucchero filato. Il mio nuovo criceto lo chiami “Nuvola”.

I giorni che passai con Nuvola furono i migliori della mia vita.

Condividevamo ogni momento della giornata, dalla colazione alla cena.

Ma questo bel momento non durò a lungo…

Un bel giorno mi svegliai, Nuvola era accanto a me, allora lo presi e cominciai ad avviarmi verso la cucina per la colazione.

Ma, proprio in quel momento Nuvola fece qualcosa di inaspettato, mi morse la mano e scappò. Stupita, cominciai a rincorrerlo per tutta la casa. Fino a che non si nascose dentro la sua casetta di carta che gli avevo costruito in camera mia. “Nuvola, cosa combini?” Le chiesi, arrabbiata.

Nuvola, allora, emise uno strano verso e dopo qualche minuto si addormentò. Tutto il giorno lei rimase chiusa nella sua casetta e io sdraiata sul letto col broncio.  Il giorno dopo, sia io che Nuvola avevamo fatto pace, o almeno era così che credevo. La mattinata passò tranquilla, con Nuvola avevo visto il film del Re Leone. Il pomeriggio invece, io e i miei genitori saremmo dovuti uscire, quando, però, dal piano di sopra, sentimmo un urlo. Io, allora, mi precipitai in camera mia senza nemmeno dare ai miei genitori il tempo di respirare. Appena entrai in camera vidi ciò che non auguro di vedere nemmeno alla mia acerrima nemica. Il pavimento era invaso da un tappeto di sangue. “Fratello, non mi lasciare, ti prego” piagnucolai buttandomi ai suoi piedi “Nuvola!!!! Ti odio come non ho mai odiato in tutta la mia vita” urlai con tutta l’aria che avevo nei polmoni.

“Oh, piccola ingrata, forse non hai capito che tra qualche minuto raggiungerai tuo fratello in cielo?”  annunciò Nuvola.

E fu, sfortunatamente, così. Il mio grande sogno si era trasformato nel mio più grande incubo.

SCRITTO DA :Giorgia C.

Rumori dietro la porta

Mi ricordo benissimo quel giorno in cui ero in casa da sola e sentii, un venticello da sotto la porta. Una voce sconosciuta che bussava alle altre porte del pianerottolo. In quello stesso giorno morì strangolata la vicina della casa accanto. Scuoto la testa come per dimenticare e mi sveglio.

Sento di nuovo un fruscio da dietro la porta d’ingresso. Scendo dal letto e in punta di piedi vado verso l’entrata. Avverto un leggero venticello da sotto la porta. Guardo dall’occhiolino e non vedo nulla. Quando sto per andare risento il venticello come i brividi che mi attraversano la schiena durante una giornata d’inverno. Mi guardo intorno e penso:«Ma come fa ad arrivare vento se la finestra del pianerottolo è chiusa?» sento i brividi percorrermi tutto il corpo. Mi osservo i piedi che tremano e mi riguardo intorno: l’armadio dell’ingresso si apre come se piangesse, il mobiletto di legno scuro scricchiola. Il pianoforte aperto si accende«Ma oggi quando l’ho usato l’ho chiuso!» penso.

Torno in camera dalla paura. Salgo dalla scala e mi corico a pancia in su guardando il soffitto.

Sento bussare, mi spavento come se un leone mi stesse per mangiare, mi rialzo e vado a bere per rinfrescare la gola secca dall’ansia. Guardo per la terza volta all’occhiolino, anche stavolta niente. Da sotto la porta arriva come della nebbiolina che mi offusca la vista.

Corro in camera e chiudo la porta. Dall’ingresso sento dei passi. Apro la porta, guardo attraverso la fessura tra porta e muro, ma  non vedo nulla. Mi giro e vedo un uomo alto quasi due metri con un passamontagna nero, dei mocassini marroncini e un vestito elegante blu notte. Nel taschino c’è un coltellino svizzero nero pieno di sangue fresco.

Mi dice: «Mi son vestito elegante per te!».

SCRITTO DA :Coriolani C.

Lo strano fruscio

Sapevo che non sarei mai dovuta scappare di casa.

Cammino arrabbiata senza sapere dove andare. Mi ritrovo in un bosco sconosciuto. Sento diversi rumori, ma in particolare un fruscio da un gran cespuglio.

Il bosco è molto grande, pieno di alberi alti circa cinque metri e grandi cespugli. Sentendo il fruscio mi spavento, quindi cammino per cercare di tornare a casa, ma sento un altro rumore. Spaventata non guardo, ma cerco di scappare. Mi ritrovo in mezzo un campo di grano con l’erba secca alta quasi due metri. Non vedo nulla. Sento un fruscio da dietro e mi giro vedendo un’ombra che attraversa il bosco in velocità. Scappo con tutte le forze che rimangono dalla paura.

La creatura si avvicina pian piano a me, non capisco cosa sia e provo a nascondermi da qualche parte. Striscio come i soldati in guerra per evitare di farmi vedere. Dopo qualche metro così, comincio a correre silenziosa come un ghepardo in cerca di prede.

Ma ad un certo punto correndo calpesto un rametto e faccio un pò di rumore. Corro a più non posso. Cerco di fermarmi a riposare. Però  prima di tutto mi guardo intorno e penso:«Non sarei mai dovuta scappare!»

«Speriamo che quella strana creatura si sia persa!».

Non vedendo nulla mi giro per posare lo zaino che avevo sulle spalle e sedermi; ma vedo un leone lungo più di un metro  saltarmi addosso con la bocca dotata di trenta denti aguzzi aperta.

SCRITTO DA :Coriolani C.

Nottata da Incubo

Adele è una ragazza di vent’anni che va all’Università. E’ introversa ma al tempo stesso sente il bisogno di stare in compagnia. Le piace leggere e ascoltare la musica, di ogni genere. E’ rossa con i capelli mossi e corti fino al collo, ha gli occhi verde chiaro miscelato con certe tonalità di grigio che le donano bellezza. Essa ha un’enorme paura del buio e, per questo viene presa in giro. E’ orfana, di conseguenza vive da sola nel suo accogliente appartamento a New York, passando le sue lunghe giornate in compagnia della sua gattina Cleo.

I suoi genitori sono morti in un tragico incidente d’auto quando lei aveva dolo sei anni appena compiuti. Quindi quando i soccorsi l’hanno trovata da sola l’affidarono a sua nonna, fino a quando non ebbe compiuto i suoi 18 anni e andò a vivere da sola indipendentemente.

E’ il primo di Novembre e Adele stava andando come tutti i giorni all’Università, ovviamente per il lungo tragitto stava ascoltando la musica nelle sue amate cuffiette, bevendo nel frattempo una bevanda energetica e gustando una barretta al burro d’arachidi, la sua preferita.

Controllò l’orario leggermente affannata e notò che era esageratamente presto, infatti erano solo le 6:30 e l’ora d’entrata è alle 8:00. Quindi decise di sedersi con leggero disgusto su una panchina logora e bagnata dalla pioggia della notte. Attorno a lei non c’era anima viva, per le strade non si vedevano tutte le persone che ogni giorno passano per di lì. C’erano solo degli alberi quasi spogli perché per la stagione autunnale erano cadute la maggior parte delle foglie come piume sul prato bagnato. Le ultime rimaste creavano un fruscio molto rilassate per Adele.

Il tempo era nuvoloso e sembrava quasi volesse piovere. Fatte le 7:00, presa dalla noia, Adele cominciò a leggere un libro giallo. Lesse per un quarto d’ora e alle 7:15 ricominciò a camminare verso la strada per andare all’Università, sempre ascoltando la musica. Sfortunatamente quando fu quasi arrivata scoppiò un tremendo temporale: tuoni assordanti rompevano il silenzio tombale che si sentiva, rimbombando per le strade. Lampi bruschi e terrificanti squarciavano il colore grigio scuro del cielo. La pioggia scendeva a dirotto e a una velocità che Adele non aveva mai visto prima d’ora. Le gocce quasi sembravano tanti piccoli spilli affilati come lame che si infilzavano nella pelle. Le strade erano interamente allagate e Adele per questo aveva poco più della metà dei suoi jeans bagnati. Comunque sia, anche con questo problema riuscì finalmente ad arrivare a destinazione, anche se interamente zuppa dalla testa ai piedi, poichè non aveva portato con sé un ombrello per ripararsi dall’acquazzone. Entrò verso le 7:45 e corse verso la classe di economia insieme alla sua migliore amica, Michelle. Loro due sono migliori amiche dalle prima media e con il passare degli anni sono diventate inseparabili. Arrivate in classe alle 8:00 in punto, la professoressa di economia aveva già incominciato la spiegazione della lezione. Quindi entrambe presero posto e iniziarono a seguire la lezione silenziosamente e prendendo appunti.

Quel giorno le ore erano solo due, entrambe di economia poiché il giorno prima era arrivata una circolare a tutti gli studenti che il giorno seguente ci sarebbe stata un’assemblea.

Al termine delle due ore, alle 10:00 Adele si avviò per tornare a casa. Era esausta perché quella mattina si era svegliata alle 5:00 per colpa si una marachella combinata da Cleo, però comunque non vedeva l’ora di coccolarla per tutto il pomeriggio.

Il tempo fuori era sempre lo stesso, ma per fortuna di Adele, Michelle aveva portato due ombrelli.

Quando arrivò a casa, Cleo le saltò subito in grembo, aggrappandosi con le sue unghiette affilate al maglioncino di Adele, che per il leggero spavento sobbalzò. Ma dopo aver realizzato che era solo la sua gattina ridacchiò e la prese in braccio chiudendo la porta d’ingresso alle sue spalle. Adele per prima cosa si tolse i vestiti bagnati e si fece un bel bagno caldo per rilassarsi, e appena finito si vestì e si mise una tuta molto confortevole. Dopo che si fu vestita linda e profumata, prese il sua tablet, si mise sul divano con Cleo avvolta da una calda coperta, e cominciò a giocare ai videogiochi aspettando l’ora di pranzo. Fatte le 13:00 Adele andò a cucinare qualcosa per il pranzo e alla fine optò per un semplice piatto di pasta. Finito di pranzare alle 14:15 andò a pancia piena nel salone a guardare tutta la sua saga preferita: quella di Harry Potter. Stette li fino alle 23:50, poiché guardò tutti e otto i film da due ore ciascuno.

A quel punto Adele decise, con leggero timore, di andare a dormire una volta per tutte. Per lei non era per nulla semplice per colpa della sua esagerata paura del buio. Si avviò nella sua stanza pensando a cosa mai le sarebbe potuto accadere cercando di tranquillizzarsi. Senti che le stava salendo sempre di più l’ansia non appena chiuse la porta alle sue spalle. Si sdraiò nel letto e provò a dormire, ma sentì dentro di lei che qualcosa glielo impediva, come una specie mostro. La casa accogliente e brillante di Adele si era trasformata in un inferno per lui, ed era appena cominciato. Dalla cucina provenivano leggeri scricchiolii che lentamente diventavano intensi e terrificanti. Fuori pioveva ancora e ancora, sembrava che non volesse smettere. Le serrande sbattevano contro le finestre per colpa del forte vento. Adele tremava come una foglia ed era sul punto di piangere. I minimi rumori che si creavano diventavano acuti e orrendi. Nel bel mezzo dell’oscurità, Adele si sentiva come se chiunque la stesse osservando anche se è solo una sua brutta paranoia. La ragazza era presa completamente dal panico, si mordeva le unghie e piangeva tappandosi le orecchie, fino a quando non ci fu un tuono assordante e Adele gettò uno strillo che risuonò in tutta la stanza. Il suo respiro era affannato e incontrollato e  per un momento si sentì mancare l’aria. Essa continuava a pensare che in casa non fosse sola, ma sapeva anche che quelle erano solo sue preoccupazioni non vere. Adele iniziò a vedere figure ambigue e orribili che la guardavano nel buio cosmico, e udire rumori anch’essi inesistenti fino a quando non si addormentò e quell’inferno finì una volta per tutte, lasciando spazio alla tranquillità.

SCRITTO DA :Alessandra D.

La leggenda del bosco

Non mi è mai stato molto simpatico il bosco vicino casa mia, ancor meno quando venni a conoscenza della storia che celava.

Dall’età di sei anni non rividi mai più mio padre e solo ora capii il perché; non avevo mai capito il perché mia madre mi tenesse alla larga da quel bosco, ma quest’ultima mi diede una spiegazione solo all’età di dodici anni di mio padre e del bosco. Mi raccontò la leggenda che narrava che chiunque fosse entrato in quel bosco non ne sarebbe mai uscito vivo. Mio padre però non ci credeva. Anche se i miei lo mettevano sempre in guardia, ma lui voleva a tutti i costi esplorarlo.

Quando si sposò, e insieme a mia madre mi concepì, le disse che non voleva più avere misteri sul luogo in cui viveva e che doveva andare a visitare il bosco di persona.

Da quel giorno mio padre non tornò mai più dall’esplorazione del bosco e mia mamma mi disse per tutti questi anni che la causa della sua morte è avvenuta per una belva feroce, ma ora sospettava veramente della maledizione del bosco.

Da quando me lo disse non ebbi più pace e desideravo a tutti i costi la vendetta per mio padre. Da quando però mi misi in testa che dovevo per forza esplorare quel bosco feci degli incubi tremendi. Certe volte sognavo di entrare in esso, sentire dei rumori e un’entità sconosciuta che, quando stava per uscire dai cespugli…Allora mi svegliavo di botto sudato.

freddo e con il respiro affannato; altre volte invece sognavo un fantasma ma sapevo che

era mio padre, lui mi diceva di non  entrare nel bosco perché avrei fatto sicuramente la

sua stessa e orrenda fine ma io non lo ascoltai, poiché ero accecato da grande rabbia e

infinita tristezza. Certe volte quando osservavo la fitta foresta notavo dei grandi occhi

che mi scrutavano nell’oscurità in cui erano immersi.

Mia mamma mi ripeteva disperata di non farlo ma io imperterrito continuavo a dirle con decisione che sarei tornato a casa sano e salvo fiero di aver completato la mia missione. Io non le davo ascolto poiché ero sicuro al cento per cento che lì avrei finalmente potuto ritrovare e riabbracciare con gioia mio padre.

In quei giorni andai a esaminare i confini della foresta cercando di intuire quello che mi aspettava una volta entrato. Qualche giorno dopo mi decidetti definitamente e incominciai la mia esplorazione tanto attesa. Mi portai dietro uno zaino non molto spazioso: al suo interno avevo riposto un cambio, dell’acqua e del cibo in caso di estrema necessità, poiché avevo già previsto prima di partire che sarei rientrato a casa verso l’ora di cena. Avevo anche portato con me un piccolo orologio da polso, così da poter sempre controllare l’ora ogni quando io volessi.

Appena però feci il primo passo nel bosco udii un ambiguo rumore che proveniva dalle mie spalle. Mi girai per controllare che fosse tutto a posto e che nessuno mi stesse seguendo, ma vidi solo il bosco fitto immerso nell’oscurità. Di casa mia oramai non c’erano più tracce, neanche uno spiraglio di luce.

Avevo promesso a mia madre che sarei ritornato all’ora di cena, ma a quel punto avevo già capito che non potevo mantenere il patto, perché l’orologio da polso che avevo prontamente portato con me aveva smesso di funzionare.

Dentro di me ero molto impaurito, avevo perso la strada di casa e incominciavo a udire rumori terrorizzanti che provenivano dal buio cosmico della foresta.

Incominciai ad agitarmi e a farmi prendere dal panico e feci la cosa più razionale che mi venne in testa in quel momento, scappai. Corsi all’incirca per cento metri e appena mi fermai, sopraffatto dalla stanchezza, mi lasciai cadere sul prato completamente sfinito.

Mi accasciai a terra con il viso rivolto verso il cielo, ma del cielo non vedevo assolutamente nulla poiché esso era coperto dal fogliame fitto e intenso degli alberi.

Con questo il mio ultimo briciolo di speranza svanì insieme alla mia convinzione di tornare a casa sano e salvo.

Sentii nuovi rumori provenienti dagli alberi ma questa volta rispetto a prima erano più acuti, striduli e orridi.

Non avevo le forze necessarie per rimettermi a correre cercando casa mia, quindi con decisione e coraggio capii che l’unica via d’uscita da lì era combattere la creatura oscura che si nascondeva in quella maledetta foresta.

Da uno dei tanti cespugli venne fuori un enorme serpente completamente nero; trovai un enome pezzo di legno, esso mi sarebbe servito per difendermi dall’ira del serpente. Fra le mie esili mani colpii l’enorme rettile dritto in testa spiaccicandogliela sul terreno senza pietà.

Dalla sua grande testa uscì il liquido verde che prima aveva in bocca. Questo liquido assomigliava molto a dell’acido poichè esso sciolse in un batter d’occhio  il terreno circostante formando una fossa.

Guardai un secondo dopo l’arma con cui avevo ucciso il mostro e, osservandolo

attentamente, mi accorsi che lungo tutto il legno c’erano tanti piccoli insetti ma grandi

abbastanza da potermi entrare dentro le orecchie.

E così fecero.

Cominciai a dimenarmi sul terreno e all’improvviso svenni. Mi ripresi dopo un’ora circa, ero pieno di gravi ferite in tutto il corpo e sanguinavano tanto che per un secondo pensai che sarei morto dissanguato.

Per la prima volta nella mia vita in quel momento avrei desiderato morire.

A un certo punto sentii il terreno su cui ero sdraiato muoversi e incominciai a vedere delle radici innaturali crescere sempre di più e man mano che crescevano mi fissavano al terreno bloccandomi completamente. Improvvisamente mi sentii sprofondare nel terreno umido.

Dopo un po’ sentii finalmente che il terriccio mi coprì interamente il viso impedendomi il respiro e di conseguenza cominciai a soffocare lentamente. Il mio corpo oramai era sotterrato e la mia morte tanto agognata era ormai arrivata.

L’ultima cosa che vidi in quel momento fu lo spettro di mio padre che mi disse con debolezza queste esatte parole: “Ti avevo detto di non venire a cercarmi…”

SCRITTO DA :Alessandra D.

La voce

Sono Anna Cairs, ho 15 anni e vado al liceo scientifico della Westover Halldove, non ho molti amici perché sono una persona abbastanza timida. Mi piace molto studiare, infatti sono la prima della classe. Pratico danza classica nella più prestigiosa scuola della città. I miei genitori fanno di tutto per accontentarmi, anche se a me serve il minimo indispensabile.

Ora che sapete un po’ di me, vi racconto la mia storia che fu la mia fine. Ero ormai alla fine del secondo anno di liceo scientifico, apprezzata dai professori; secondo loro avrei dato ottimi risultati all’esame finale. Ogni giorno facevo il doppio dei compiti, a prenotazione facevo anche quelli dei miei compagni fin dall’inizio dell’anno. In seguito la voce si sparse per tutta la scuola e in questo modo ho avuto molte più prenotazioni e ho dovuto studiare di più. A molti potrà sembrare una cosa sciocca, ma per me è stato molto utile perché così mi sono allenata di più nello studio.

Un giorno, però, iniziò quella che sarebbe stata la mia fine. All’una di notte feci un incubo terribile: sognai che tutti i professori mi avevano assegnato una gran quantità di compiti, ma poi, una voce mi parlò, e la sensazione che ebbi non ve la potreste mai immaginare. La voce sembrava dentro la mia testa, perché i professori non la sentivano; ma l’aspetto ancora più inquietante della strana voce era il suo tono, si mostrava gentile e rassicurante nei miei confronti, anche se a me faceva solo paura. La voce sembrava molto antica, come se non avesse parlato per mille anni. Mi diceva che non ce la potevo fare e che dovevo abbandonare l’idea di studiare così tanto; io le rispondevo di no, ma ogni volta che aprivo bocca i compiti aumentavano, fino a travolgermi.

Mi svegliai di soprassalto nel mio letto, erano le cinque del mattino. Da quella però ebbi lo sgradevole presentimento che la voce fosse reale. Mentre ero ancora assonnata, mia madre entrò in camera sbattendo fortissimo la porta. Mi guardò con occhi furenti, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato e disse “Cosa ci fai ancora a letto! Alzati immediatamente e vatti a vestire!”. Ero molto scossa da queste sue parole, di solito mi alzo alle 06:40, e perché ora alle cinque? Provai a chiederglielo, ma appena stavo per aprire bocca mi disse di non lamentarmi e di andare a prepararmi subito. Feci quello che mi disse di fare e alle 06:00 mi stavo già incamminando per andare a scuola, siccome abitavo molto vicino a essa. Aspettai ben due ora prima che alle 08:00 la scuola aprisse i cancelli e iniziassero le lezioni.

Quel giorno, però, a scuola erano tutti molto strani, tutti gli studenti mi guardavano male, come per farmi capire che dovevo stare loro alla larga. Arrivata in classe mi sedetti al mio solito posto davanti la cattedra. I compagni mi guardavano tutti molto male e questa cosa non mi piaceva, ma le cose peggiorarono con l’arrivo della professoressa. Quel giorno aveva assegnato più compiti del solito, ma poi, alla fine dell’ora, mi disse che, siccome avevo superato gli standard della classe, dovevo fare più compiti e me ne assegnò molti, molti in più. Lo stesso successe anche con gli altri professori, in questo modo avevo una montagna di compiti da fare. Alla fine della scuola ero stanchissima, la giornata era stata particolarmente pesante, soprattutto per me che ero stata interrogata ogni ora alla lavagna.

Quando stavo per uscire da scuola, un muro di studenti mi sbarrò la strada. Un paio erano della mia classe, ma la maggior parte erano ragazzi della scuola. Potevano essere circa una trentina, e mi dissero tutti la stessa cosa: “Ho aspettato abbastanza, voglio i compiti entro domani o per te saranno guai”. Non mi era mai capitato che le persone a cui facevo i compiti si arrabbiassero perché volevano i compiti prima della scadenza. In quel momento volevo gridare a tutti di smetterla di lamentarsi e che avrei consegnato i compiti fatti quando prestabilito, ma non ci riuscii. A un certo punto la risentii…la voce. Mi diceva di accontentare tutti con la sua voce calda e gentile, e così feci. Mi accorsi dopo un secondo cosa avevo fatto, avevo appena accettato di fare i compiti a trenta persone entro l’indomani. Stavo per dire di aver sbagliato, ma se ne erano già andati tutti.

Da quel momento la voce non mi abbandonò neanche per un istante, commentando tutto quello che facevo, facendomi impazzire. Quel giorno finii i compiti all’una di notte e in più non ero neanche andata a danza. In questo stesso modo trascorsi i giorni successivi, l’unica  differenza era che ogni giorno era sempre peggio del precedente e con più compiti da fare.

Una sera ero al culmine della pazzia, la voce era più forte e crudele del normale. Per quanto avessi ormai male la mano destra, avevo il mal di testa e non riuscivo più a concentrarmi. A un certo punto tutte le luci della mia stanza si spensero, facendo rimanere solo quella della mia scrivania, sulla quale stavo studiando, che cominciò ad accendersi e spegnersi. Incominciai a guardarmi intorno sentendomi osservata, e poi la vidi, sul fogli in cui stavo scrivendo era comparsa una faccia. Per quanta paura avessi non riuscivo neanche a urlare. A un certo punto, però, la faccia incominciò a parlare: “Non ce la farai mai di questo passo, io sono qui per aiutarti, chiudi gli occhi e tutto questo finirà”. Avevo una paura tremenda di quello che stava succedendo, ma ero tentata di chiudere gli occhi. Negli ultimi tempi nessuno era più disposto ad aiutarmi, alla fine decisi e…chiusi gli occhi. Anche il palazzo accanto poté sentire il mio urlo di paura. Dopo quella notte, nessuno si ricordò più di Anna Cairs.

SCRITTO DA :Vittoria L.

L’ANACONDA

“Ehi, che ne dici di fare un bel pic-nic?” domanda Thomas ad Alice.

“Non è una cattiva idea!” risponde Alice con un sorriso. Arrivati in macchina, Alice decide di fare il pic-nic in un bosco (perché avevano portato anche delle tende in caso vogliano restare). Arrivati nel bosco, Alice era emozionata perché era il suo primo pic-nic in un bosco, quindi voleva che fosse tutto perfetto; si immaginava un bel picnic in riva al lago con degli scoiattoli e gli uccellini che canticchiavano, ma si sa che Alice aveva visto troppi film romantici. Dopo un po’ che camminavano, Alice e Thomas avevano trovato il posto perfetto con un sentiero in riva al lago. Allora decidono di sistemarsi lì. Dopo un po’ Alice si infila il costume e decide di farsi il bagno nel lago, (anche perché faceva molto caldo). Quindi senza pensarci due volte si va a tuffare. Dopo pochi minuti Alice sente dei rumori…sempre più forti…fino a quando,

“Alice, attenta! Ci sono dei piranha!” grida Thomas.

“Ahhhh!” Urla Alice mentre si precipita verso la riva, terrorizzata dai piranha. Ma per sbaglio inciampa e si fa male la gamba.

“Tutto bene?” domanda Thomas preoccupato per Alice, sua moglie.

“Sì…credo di sì…” balbetta Alice torturata dal dolore sulla gamba.

“Sei sicura?” domanda Thomas,

“Beh…ok non sto così bene…” ammette Alice

”Vado a cercare aiuto, tu non muoverti ok?” raccomanda Thomas ad Alice mentre corre a cercare aiuto.

“Ma chi lo vuole a quello” pensa Alice. Eh sì, Alice non amava affatto Thomas, lo usava per vivere, per i soldi, infatti lo tradiva.

“Cosa sono questi rumori…?” pensa Alice preoccupata per se stessa.

…*Spunta un’anaconda verde*

“AHHH!”

Un’anaconda verde (o anaconda gigante) può mangiare una persona (è un serpente gigante) soffocandola. Quell’ anaconda fece sorgere in Alice un ricordo di quando era bambina e aveva visto un serpente. Era grossa e spaventosa. Quando già Alice era stata “strozzata”, Thomas stava correndo più veloce che poteva per salvare la sua amata, ma tutti i suoi sforzi erano stati vani.

SCRITTO DA :Helena A.

La cicatrice

Sono Giacomo, ho 12 anni e sono strano. A me piaceva studiare e per questa mia passione i miei compagni mi iniziarono a bullizzare. All’asilo ero l’unico che con i mattoncini faceva calcoli matematici e già lì gli altri bambini incominciavano a prendermi in giro, ma non ci badavo molto. Alle elementari era diventata abitudine chiudermi negli armadietti o mettermi la testa nel water. Non ne parlai mai con nessuno perché i bulli mi minacciavano di buttarmi giù dalla finestra, e credetemi, so di cosa sto parlando. Una volta insieme a me, questi ragazzi bullizzarono un bambino di prima elementare, che dopo poco lo disse a sua madre. Il giorno dopo la maestra di matematica lo ritrovò sdraiato sotto una finestra della scuola. Quando il bambino si riprese la mamma di quest’ultimo lo cambiò di scuola.

Non parlai del bullismo con mia madre. La storia della mia famiglia è una storia triste e dolorosa; un giorno ero in macchina con tutta la mia famiglia: mia madre, mio padre, mia sorella maggiore e io. Anche se ero molto piccolo, me lo ricordo alla perfezione, mia madre e mio padre litigavano e mia sorella piangeva, mentre io non facevo niente. A un certo punto mio padre, per la rabbia, fa per lasciare il volante, come faceva sempre quando era arrabbiato e aveva qualcosa fra le mani. Ma, al posto di volare via, il volante girò bruscamente su se stesso e la macchina sbandò. Fu un brutto incidente, nella quale morirono mio padre e mia sorella, mia madre invece ne uscì con traumi cerebrali per colpa del forte schianto. Io invece, che ero solo un bambino di pochi anni, ne uscii con neanche un graffio, a parte all’interno del braccio destro, sul quale mi si formò una cicatrice a forma di coltello. Molti poliziotti che sono intervenuti sul luogo dell’incidente hanno provato a capire perché io non avessi le ferite, ma niente da fare, ancora oggi io stesso non riesco a trovare una spiegazione logica.

Un giorno però, successe qualcosa. Mentre i bulli mi stavano chiudendo in un armadietto, una sensazione nuova mi attraversò il corpo, rabbia. Di punto in bianco uscii bruscamente dall’armadietto. In tutti questi anni non avevo mai reagito agli attacchi dei bulli, invece ora sì. Questi ultimi, appena videro che mi ero ribellato, mi corsero contro; d’istinto presi il braccio del primo bullo ruotandolo e facendolo cadere a terra. Gli altri due mi guardarono e corsero via. Appena mi accorsi bene di quello che avevo fatto presi il mio zaino e scappai anche io, per fortuna questo attacco era avvenuto alla fine della scuola e quindi non c’era nessuno.

Tornato a casa andai a salutare mia madre che, come al solito, mi rispose con un verso non identificato. Dall’incidente stava ogni giorno peggio, e da quando papà era morto siamo finiti in bancarotta. Non avevamo neanche i soldi per permetterci una badante per la mamma e un appartamento decente. In quei giorni però era peggiore del solito e secondo me non le restava molto tempo da vivere. Quel pomeriggio, successe la cosa che temevo ormai da tempo. Andai nella stanza della mamma per vedere come stava. Già quando stavo arrivando sentii qualcosa di strano perché non c’erano rumori provenienti dalla stanza. Andai da lei tutto agitato e la vidi ferma, avevo un nodo alla gola per la paura. Mi avvicinai ancora di  più e le misi una mano sul cuore, niente. Iniziai a piangere disperato, non volendo credere che ero rimasto definitivamente da solo. Non tolsi il corpo di mia madre da lì, per non sbarazzarmi dell’ultimo pezzo della mia famiglia che mi restava.

Nei giorni successivi ero sempre più triste per il destino di mia madre, ma ero anche sempre più arrabbiato per la storia dei bulli. Non sopportavo che qualcuno molto più viziato e stupido di me mi mettesse i piedi in testa, e così incominciai a ribellarmi. Col passare del tempo però, le mie ribellioni divennero sempre più violente e la cicatrice a forma di coltello mi bruciava sempre di più.

Un giorno però, successe qualcosa di inaspettato. Di mattina mi svegliai e attaccato all’interno del mio braccio destro c’era un coltello. Non capivo come ci fosse finito lì un coltello, ma poi, posai lo sguardo all’interno del mio braccio destro e mi venne un colpo, la cicatrice a forma di coltello non c’era più. Ero sbigottito e terrorizzato insieme, ma sapevo quello che dovevo fare. Per scoprire a cosa mi serviva me lo sarei dovuto portare con me. Quel giorno andai a scuola e stranamente nessun bullo mi attaccò. Alla fine delle lezioni, mentre stavo tornando a casa, mi voltai e mi accorsi che dietro avevo un bullo: mi guardò, mi fece un sorriso crudele e mi corse contro gridando “ORA SEI MORTO”. D’istinto presi il coltello, glielo puntai contro e chiusi gli occhi. Quando li riaprii vidi il bullo senza vita trafitto dal mio pugnale. Nel panico presi il cadavere, siccome ero sotto casa mai, lo salii e lo nascosi nell’armadio. Quando ebbi finito, una pazza felicità incominciò a farmi ridere a crepapelle facendomi ripensare a quello che avevo fatto. Da quel giorno impazzii. Ogni giorno, dopo quello, una persona mi seguiva e arrivato sotto casa io la uccidevo e la nascondevo nello sgabuzzino.

Andai di questo passo per una settimana e nessuno sospettava di me. Un giorno avevo finito gli asciugamani e pensai che nella camera di mia madre ce ne fosse qualcuno. Quando entrai feci di tutto per non guardare il corpo privo di vita di mia madre ma non ce la feci e la guardai. Rispetto a guardare il corpo delle mie vittime, il suo era più triste da guardare. E infine mi resi conto di quello che stavo facendo, stavo uccidendo della povera gente solo perché mi seguiva e mia madre non lo avrebbe mai voluto. Alla fine capii quello che dovevo fare, presi il coltello dalla tasca, me lo puntai contro e con tutto il coraggio che avevo me lo trafissi. All’inizio faceva un dolore tremendo, ma poi tutto si spense nei miei occhi per sempre.

SCRITTO DA :Vittoria L.

Nella tela del ragno

Il vento soffiava prepotentemente sulla finestra blindata. Nonostante il caldo soffocante che riempiva la stanza io continuavo a tremare stringendomi a mia moglie, Anna, e aspettando l’ora in cui tutto sarebbe accaduto, come ogni notte dai miei ventidue anni.

Udii un leggero sospiro proveniente da fuori e avrei potuto giurare di aver sentito il mio cuore fermarsi per poi iniziare a battere all’impazzata.

Un sussurro di parole indecifrabili si fece spazio nel silenzio della mia stanza e nella mia testa, il mio respiro divenne irregolare e chiusi gli occhi con forza pretendendo di non udire quei pietosi lamenti e ad un certo punto mi addormentai.

Il giorno dopo mi svegliai con mio figlio, Marco, che saltava sul letto.

“Ha solo due anni e già è un diavoletto pieno di energie” pensai sorridendo leggermente.

La giornata procedette velocemente: io e Anna andammo a lavoro lasciando Marco con la sua babysitter Giuliana. Quando siamo tornati siamo andati tutti al parco e poi al centro commerciale e purtroppo la notte calò.

Alle 2:30 di notte sentii bussare alla mia finestra: “Toc, toc, toc”, il suono rimbombò nell’aria. Mi guardai intorno facendo cadere l’occhio sulle sagome femminile alla finestra e alla parte di letto vuoto accanto a me dove di solito stava mia moglie.

Mi iniziai a domandare in che posti poteva essere a quell’ora e una malsana idea mi passò per la testa: se era lei la donna della sagoma?

Cercai di scacciare via queste idee malsane, anche perché mi ero dimenticato l’obiettivo principale: salvare la famiglia.

Mi alzai di corsa dal letto ignorando i rumori che provenivano da fuori e andai il più velocemente possibile nella stanza del mio bambino. Lo presi in braccio e andai in salotto per prendere l’ascia che usavo in campagna per tagliare il legname.

Mentre mi dirigevo alla porta per affrontare la sagoma, mio figlio, non capendo cosa succedeva, si mise a piangere e quando aprii la porta mi ritrovai davanti mia moglie che mi guardava con gli occhi spalancati in uno stato di shock.

Anna dopo quell’incidente mi chiese il divorzio e mi reputarono mentalmente instabile per vivere da solo, quindi mi rinchiusero in un manicomio.

Nel manicomio avevo una stanza al piano terra e la donna che mi tormentava quando ero a casa mi seguì; continuò a tormentarmi, fin quando un giorno non decisi di arrendermi per sempre ed uscire per vederla, non tornai mai più.

“Ho sognato questo momento fin da quando mi avete assunta come babysitter per il vostro bambino, signore”.

SCRITTO DA :Siria M.

THE NUN MATHER

Non dovevo smettere di studiare.

Era un pomeriggio disastroso perché io non volevo studiare e i miei genitori mi rimproverarono tutto il tempo. Dopo un po’ si calmarono e andarono in un’altra stanza per parlare di qualcosa che probabilmente mi riguardava; il giorno dopo decisero di farmi una sorpresa. Mi sembrava una sorpresa piacevole, ma si rivelò che non lo era.

Era una casa molto grande di uno strano colore arancione-bordeaux con delle mura molto alte. Mi sembrava un parco divertimenti ed ero felice anche perché sembrava che mi invitassero ad un pigiama party perché mi avevano dato una stanza per due persone.

La stanza era grande con due letti tutti bianchi, le pareti erano di un colore grigiastro con due foto di suore inquietanti e un dipinto raffigurante l’ultima cena; non c’era neanche un lampadario e l’unica luce che avevamo era una torcia ciascuno.

A pranzo mi sedetti da solo fino a quando arrivò lei la Suora Madre che iniziò a pregare. All’inizio non capivo chi fosse fino a quando ho notato che assomigliava a una suora cattiva e capii tutto. La Suora Madre era vecchia quasi senza capelli, indossava sempre lo stesso vestito lungo e bianco che le copriva anche i piedi.

Quando tornai in stanza provai a chiamare i miei genitori e nonni, ma nessuno rispondeva e allora mi arresi e provai a distrarmi, giocando al cellulare.

Il mio compagno di stanza non parlava molto, sembrava che già sapesse quando sarebbe dovuto morire. Allora provai a parlargli, ma lui non rispondeva. Così rimasi in silenzio e cominciai a incamminarmi verso il giardino, che era più grande di tutta la casa, dove si poteva solo leggere o studiare.

Mentre andavo nel giardino mi guardai intorno e vidi un pulsante che si mimetizza nel muro. Allora l’ho premuto e mi portò in una cantina molto piccola e stretta in cui trovai subito una porta con una scritta “Oltre Dio”. Allora la aprii e uscì una mano che afferrai, ma era la mano di un bambino già morto. Iniziai a correre velocemente fino a quando ritornai davanti alla porta segreta e uscii da questa cantina per scappare in stanza e mi misi sotto le coperte e mi addormentai.

Mi svegliai alle cinque di notte per andare in bagno e vidi la Suora Madre che camminava con delle scarpe alte che facevano scricchiolare il pavimento e tra le braccia portava il corpo di un bambino monello; all’improvviso la Suora fu davanti a me. Io senza pensarci scappai di nuovo in stanza e chiusi la porta a chiave per avere più tempo per preparare lo zaino per fuggire via. Saltai fuori dalla finestra mentre dieci guardie con dei cani iniziarono a inseguirmi. Ma io non mollai e continuai a correre perché mancava davvero poco all’uscita. Le mie gambe ormai erano stanche morte e non le sentivo più così arrivai al cancello e lanciai lo zaino oltre, ma io…..non dovevo smettere di studiare!

SCRITTO DA :Munafò A.

Una presa in giro, ti punisce per la vita

“Mamma, oggi posso rimanere a casa?” dissi, ma lei domandò: “Perché? Che è successo, Mary?”

“Mi sento male, molto male, e ho anche molto freddo!”

“Potresti avere la febbre, fammi toccare, sposta quei tuoi capelli d’oro dalla fronte, però, …AUCH! È bollente!” Spaventata le feci osservare il braccio, che mi prudeva moltissimo, ma uscendolo dalle coperte vidi che era stracolmo di puntini rossi. <<Oh noooooooo>>, pensai. “Bambina mia, hai la febbre altissima e il morbillo, mi dispiace!”

“Allora, portami Teddy e la palette dei trucchi, così non mi annoio e faccio qualcosa.

“D’accordo amore, tieni.”  disse mamma.

“Grazie mamma!” risposi.

“Allora, adesso torno di sotto. “

Io mi trucco perché voglio sembrare un po’ più grande, ma anche perché mi piace truccarmi. Ah, comunque Teddy è il mio amico, è un coniglietto di peluche azzurro, è molto morbido, carino e ce l’ho da quando sono piccola. Questa giornata passò abbastanza velocemente, a parte che avevo il morbillo e la febbre, di sera mi guardai un film, sola, in camera mia e mi addormentai poco dopo l’inizio del film. Mi addormentai come un sasso!

Ad un certo punto mi svegliai di SOPRASSALTO. “Aiutooooo!” gridai, ma i miei genitori non rispondevano. Avevo sentito dei suoni provenienti dall’ingresso, li seguii e mi fecero arrivare in un bosco denso come la gelatina, era molto compatto e pieno di alberi altissimi; là vidi una botola e molto curiosa ci entrai. “Oh, ciao sfigata!” dissi.

“Ciao Mary, vedo che ti ricordi di me! Ricordi quando mi avevi preso in giro perché ero di colore, bassa e riccia?”

“Certo che ce lo ricordiamo (io e le mie amiche Viola e Jusy) ahahahah, come poterlo dimenticare, ah come è andata con i tuoi genitori, Sofia, ahahahahaha?

“Tu non sai chi sono veramente”, disse Sofia

“Perché, che dovresti essere oltre che una sfigata? “

“Beh, allora guarda! Ora chi è che ride? Guarda i tuoi gattini e il tuo criceto!”

“Oh, nooooo, perché li hai uccisi?” chiesi disperata. Allora le dissi che mi dispiaceva per averla presa in giro, anche se era troppo tardi. A quel punto scappai di corsa a casa sconvolta. Corsi, corsi e corsi, poi inciampai, ma spaventata mi rialzai e continuai a correre, ad un certo punto riconobbi la via che si trovava lungo la mia casa, la trovai, ma… LA CASA ERA IN FIAMME!!! Ero sconvolta, ho chiamato i pompieri per cercare i miei genitori. Appena sono arrivati i pompieri, hanno spento il fuoco, mi sono messa a correre per tutta la casa a cercarli, li chiamavo “Mammaaaa, papaaaaaaaaaà! “, nessuna risposta, ma continuavo a cercarli e a chiamarli, li cercai in cucina, in salotto, nella sala da pranzo,… poi, mi sono ricordata che era notte e loro stavano dormendo. Allora sono corsa nella loro camera da letto, ed è lì che li ho trovati, ma senza vita. A quel punto ero sola, senza genitori o amici animali. Tornai alla porta d’ingresso e vidi Teddy con un sorrisetto inquietante e la voce di SOFIA. Lui mi spiegò la verità.

In realtà lei era una strega e a chi le faceva del male, o la bullizzavano, rendeva la vita un inferno totale, e questo è quello che è successo a me. Ora mi sento in colpa per quello che le avevo fatto, ma ora non sapevo come continuare la mia vita.

SCRITTO DA :Romanò A.

IL luccichio

Stavo tornando a casa. Non ce la facevo più a tenere il broncio a mia madre. Ero pieno di odio. Infatti non avevo preso l’ombrello prima della lite ed ero tutto zuppo.

Mia mamma mi aveva urlato: “Ti butterò tutti i lego, perché non studi! “.

Non era giusto, comunque aspettai 10 minuti per asciugarmi. Aprii la porta della palazzina. Si sentì il solito scricchiolio di porta arrugginita. Salii le scale, ma ogni piano si faceva sempre più buio.

“Non aveva sistemato le luci!” pensai tra me.

Un fulmine illuminò per un istante le scale. Arrivai all’ultimo piano e aprii la porta. Non c’era più luce, ma mi ricordai della torcia nella cassettiera. Nel prenderla, mi chiusi il dito nel cassetto, ma non urlai per non svegliare mia madre. Entrai lentamente nella mia stanza, il buio tagliato dal fascio di luce argentato della mia torcia. I lego per fortuna erano al loro posto sulle mensole sopra il mio letto.

Ora dovevo studiare. La casa puzzava come un pesce morto in uno stagno pieno di liquami. Iniziai a scrivere il mio nome sul foglio: “Luca Motta…”

Ad un certo punto scorsi un movimento nell’ombra nell’angolo delle mensole per i lego-robot. Non sapevo cosa fosse e mi iniziò a salire l’ansia. Puntai la torcia verso i robot: erano tutti al loro posto, anche il più bello che avevo chiamato “la macchina mortale”. Nell’ombra luccicò qualcosa. Una lama nera e rossa, però non c’era nessuno. Pensai, perché avevo troppo sonno, anche se iniziai a temere qualcosa.

La stanza era quasi del tutto illuminata. Credo che fosse mezzanotte. Perché c’era un lucernaio a tetto che illuminava la stanza cupa. Presi delle pillole per non avere altre allucinazioni. Sentii uno scricchiolio che proveniva dalla porta bianca immersa nell’ombra.

“O ero diventato matto oppure ero solamente stanco. “

Forse poteva essere il mio cane: “Sei tu Fido?” chiesi con voce impaurita dal rumore che si stoppò all’improvviso. Era lui e corse verso di me facendosi coccolare per la gioia. Poi abbaiò contro l’ombra, anche se io non capivo il motivo di quel gesto. Lui, però, ringhiando si mise sotto la mia scrivania. C’era caldissimo e bevvi un po’ d’acqua.

Non me ne ero accorto, ma istintivamente stavo stringendo la mia penna multicolor. Visto che non era di buona qualità, si spezzò. Presi un tovagliolo e asciugai l’inchiostro e, mentre stavo prendendo una penna e un cancellino per pulire il foglio dall’inchiostro, rividi qualcosa nell’ombra. Ora non poteva essere un’allucinazione; quindi mi alzai, presi la torcia e sentii un rumore acuto come quando una forchetta viene strisciata su una lavagna. Non poteva essere Fido, perché era sotto la scrivania, più impaurito di me. Ora ero seriamente spaventato, ma avvicinandomi passo dopo passo verso le mensole dei lego, i passi si fecero sempre più pesanti. Non riuscivo ad alzare i piedi. Quindi, li strisciavo. Dopo qualche minuto di silenzio e scricchiolii per i miei passi sul parquet, vidi degli specchi, che facevano arrivare la luce fino a quello più grande: mancava il lego più bello. Nello specchio più grande, con difficoltà riuscii a leggere: “Vai a vedere come sta tua madre…ora sei mio per sempre! “

Finii di leggerlo quando una mazza mi addormentò.

SCRITTO DA :Romanò V.

THE CRAZY TOY

Un ragazzo di nome Sandro si trovava con i suoi amici ad una festa che si svolgeva in montagna dove gli alberi erano talmente fitti e numerosi che non facevano passare il sole ed erano alti più di 100 metri. Quel giorno Sandro e i suoi amici si sentivano esploratori come se dovessero cercare un reperto storico.

Iniziarono a esplorare il bosco e tutti trovarono un bastone che li avrebbe aiutati a camminare più facilmente tra i sentieri delle montagne. Erano dieci ragazzi che videro una montagna da superare e mentre la scalavano trovarono una grotta dove appostarsi per riposare.

La grotta era così grande che si sentiva l’eco, era piena di ragnatele. All’inizio pensarono che fosse una tana di orso perché videro delle ossa di animali, ma non si impaurirono più di tanto e continuarono a esplorare la grotta. Girando l’angolo trovarono una sedia di legno rotta e una bambola caduta a terra che aveva uno sguardo talmente pauroso che li fece spaventare. Sandro che fu il più coraggioso, si avvicinò alla bambola e la prese in mano, accorgendosi che l’anno di creazione della bambola era lo stesso giorno e mese del suo anno di nascita. Lui restò impressionato e quindi la lasciò cadere dalle sue mani. Poi tutti decisero di continuare a salire la montagna.

Arrivati in cima, si accorsero che mancava un amico: provarono a chiamarlo, urlando il suo nome ma non lo trovarono e allora decisero di andare avanti e vedere se lui li avesse superati per sbaglio.

Proseguendo il sentiero della montagna trovarono una casetta abbandonata. Si avvicinarono e bussarono: “Tic, Toc” e qualcuno dall’altra parte della porta rispose con una voce rauca e oscura: “Chi è?”

I bambini risposero dicendo di essersi persi, allora l’uomo spalancò la porta e Sandro vide sia un uomo alto, barbuto e con un viso sporco di sangue che una bambola seduta in una poltrona in lontananza e capì che era la stessa bambola che aveva lasciato cadere nella grotta.

L’uomo urlò: “Andate via!” e loro iniziarono a correre molto lontano da quella casa fino a quando trovarono un posto sicuro. A questo punto, i bambini si guardarono tra loro e si contarono, accorgendosi che mancavano tre amici. Sandro iniziò a insospettirsi che la bambola non fosse un semplice giocattolo ma un complice del diavolo e così la paura aumentò sempre di più fino a scappare velocemente.

Cominciarono a incamminarsi verso casa, ma sentono un rumore provenire dagli alberi e all’improvviso scese anche la nebbia e iniziarono a sentire freddo.

Cadde pure un albero e all’improvviso iniziò un vento fortissimo e Sandro si trovò da solo con la bambola paurosa che gli prese la mano e lo guardò dicendo: “You are crazy!”.

SCRITTO DA :Munafò A.

Il pic-nic

Sfrecciavo sulla mia bicicletta verso la scuola, a prima ora avrei avuto una verifica di matematica perciò non potevo fare tardi.

Sul marciapiede vidi una bambina accucciata tenere un piccione ferito, che mi fece segno di fermarmi. Quel povero uccello era zuppo di sangue, completamente spennato con un’ala rotta.

“Puoi aiutarmi con questa creaturina?” Mi chiese quella bizzarra bambina, aveva degli occhi verdi come l’erba di primavera e dei capelli bianchi come la neve. Il suo vestito era sporco di terra.

“Non posso… credo sia già morto mi dispiace” affermai troncando la conversazione e ricominciai la mia corsa.

Non riuscivo a levarmi di testa quella bambina, era come un ronzio assillante di una zanzara che non ti lascia in pace.

Finita la scuola ripresi la mia bici e mi avviai verso casa, finché non mi trovai davanti lo stesso piccione di stamattina. “Forse non era morto… avrei potuto fare qualcosa…” i sensi di colpa mi fecero compagnia fino a casa. Lasciai la bici nel garage e affamata spalancai la porta d’ingresso di casa. Vuota.  “Strano” non c’era nessuno a cucinare o guardare la TV. I miei genitori odiavano uscire. Andai in cucina e trovai un biglietto dentro una pentola sopra un fornello: “Cara Melissa, io e papà siamo andati al parco per fare un pic-nic in mezzo alla natura, non potevamo perderci questo sole! Porta con te anche la tua amica Giovanna, più siamo meglio è! ci vediamo al parco!”

“Cosa? ho letto bene? Non le ho mai parlato di Giovanna, come fa a conoscerla?” La chiamai.

“Il telefono squilla da troppo tempo, di solito risponde subito, sarà impegnata”

Presi la bicicletta e andai al parco.     Appena arrivai lo trovai chiuso, dalle sbarre arrugginite si intravedevano delle persone ai tavoli da pic-nic. “I Miei genitori hanno scavalcato le sbarre? Cosa sta succedendo oggi?” Posai la bicicletta e senza farmi notare scavalcai le sbarre.

Avvicinandomi ai tavoli si sentiva una puzza terribile, non sapevo descrivere cosa fosse o da dove provenisse.

Finché non raggiunsi l’area pic-nic. Il corpo dei miei genitori era disteso su un tavolo mentre centinaia di insetti e uccelli gustavano i loro organi. Stavo per vomitare. Mi accorsi solo dopo che mamma e papà erano ancora vivi. Stavano cercando di urlare, emettevano un flebile rantolo, ma la loro bocca brulicava di scarafaggi. Perché? fra gli uccelli ne vidi uno, era pieno di sangue senza un’ala, come quello di questa mattina. Cosa stava succedendo?

Da dietro un albero vidi una bambina, la conoscevo, era la bambina che incontrai andando a scuola:” Ciao Melissa, ti piace il pranzo di oggi?”

SCRITTO DA :Sofia P.

Il palazzo degli orrori

Era notte. Notte fonda.

Ripensavo a quel momento. “Non può continuare così!” Gridò il mio capo: “Sei licenziata!” Tutto ciò per un’email inviata al destinatario sbagliato?

Presi le mie cose e me ne andai.

Fissavo il muro bianco e candido come la panna, di fronte al letto. Era buio, l’unica cosa che intravedevo era una tenue, ma calda luce attraversare la porta. Percepivo un odore di bruciato e difficoltà a respirare, mancanza di ossigeno.

Con un balzo, scesi dal letto, la porta si disintegrò tra le fiamme. Spalancai la finestra e senza pensarci due volte mi buttai. Per fortuna la casa era al primo piano o almeno quello che rimaneva della casa.

Ero sola. Le uniche cose che mi rimanevano erano una vestaglia da notte sgualcita, color rame e delle ciabattine da camera.

Cominciai a correre, con la poca forza che mi rimaneva, tra i lampioni di Londra, quando scorsi attaccato su uno di essi un volantino:

“Cercasi domestica. Palazzo reale. Per ulteriori informazioni contattare il 340 263 7855.”

Era la mia occasione. Strappai dal lampione il volantino e mi diressi verso la stazione più vicina. Meno male che era a soli 3 km.

Una volta raggiunta la stazione, sfinita, mi precipitai nella cabina telefonica. Digitai il numero e chiamai. Essendo le 4:30 del mattino non rispose nessuno. Aspettai sdraiata su una panchina fino alle 7:00. Poi riprovai.

“Buongiorno, palazzo reale della famiglia Prinston. Con chi parlo?” Domandò una profonda voce maschile.

Buongiorno, sono la signorina Millie Browner. Chiamo per il posto da domestica.”

Un mese dopo…

La cucina era sporchissima, forse per i tre piatti di waffle del principino Finn, due della regina Delia, due per il re Carlo e uno per il maggiordomo Bruno. Insomma, una famiglia ghiotta di waffle. Presi la mia putrida spugna “direttamente dalle acque del mare di Ibiza”…

Troppo satura di sapone per prenderla in mano. Stavo per strofinarla sul piatto, quando Bruno spalancò la porta gridando:

“Signorina Millie! Il principino Finn è scomparso!!!” Con il cuore che scoppiava, mi precipitai in salotto.

“Sua altezza, cosa posso fare per lei?” Esclamai. La regina piangendo disse: “Per ora nulla, grazie.” Singhiozzò! Era pallida come la morte. Non era normale. Sembrava uno zombie.

Disperata, tornai in cucina. Feci per prendere la spugna, ma quest’ultima era scomparsa. Presi un bicchiere d’acqua, con mani tremanti.

“Aaah!” Gridai. Il bicchiere si era disintegrato in milioni di frammenti e un filo di sangue colava dal mio indice. Chiamai Bruno: “Bruno, sai dov’è l’acqua ossigenata?” Bruno arrivò veloce come il pensiero e urlò: “Signorina Millie, ma cosa succe…” I suoi capelli erano diventati grigi come l’argento. La sua pelle si attorcigliò e raggrinzì in migliaia di rughe. Bruno era invecchiato di almeno 40 anni, tutto in un colpo. Era un vecchio di 90 anni. “Oddio ma che è successo!” Urlai. Lui sussurrò con una voce lieve e graffiante come la carta vetrata: “Comunque l’acqua ossigenata è nella credenza in basso a destra.” E scappó via.

Mi abbassai terrorizzata verso la credenza per prendere l’acqua ossigenata e l’aprii. Buio. Era saltata la luce. Occhi rossi illuminavano la credenza. Balzai all’indietro; la luce tornò, ma percepivo che qualcosa non andava.

Corsi in salotto. Re Carlo era a terra: “Che sta succedendo!” Urlai ancora!

Mi piombai di nuovo alla credenza. Niente luce di nuovo. Occhi rossi, denti aguzzi. Un ghigno che sussurrava:

“Vieni da Jonny!”

SCRITTO DA :Emanuele T.

Stanze marroni

Finalmente dinnanzi a me potevo osservare quelle antiche mura fiere di sostenere la provincia di Catania. Era lì che lavorava papà ed era lì che mi trovavo in quel momento speciale! Entriamo e papà mi porta nella sua stanza. Prende le chiavi dalla tasca, ne acciuffa una, la inserisce nella fessura della porta e come per magia la porta si aprì. Immediatamente il mio occhio cadde sulle immense regnatele. Solo a guardarle, mi vennero i brividi. Dopo un po’, le fame cominciò a farsi sentire. Così mangiammo il gustoso riso alla zucca delle mamme.

“Toc-toc”, Improvvisamente qualcuno bussò alla porta. “Buongiorno Charlie. Ti va un caffe?” Disse un uomo nervoso a me sconosciuto.

“Ciao William. Certo che mi va di prendere un caffè, ma prima vorrei presentarti mia figlia Michelle. William, Michelle, Michelle, William.” Rispose papà, presentandomi.

“Piacere signor William! “Aggiunsi io. L’uomo non si premurò di rispondermi, bensì di sussurrare: “Che bei capelli biondi, lunghi ed impressionantemente folti. “Dopo questo commento un po’ bizzarro papà mi propose di aspettarlo lì, mentre prendeva il caffè. Io accettai, ma non appena girò l’angolo, andai in giro per la provincia. Salii e scesi le scale, oltrepassai i corridoi e le stanze erano tutte uguali. Finché non girai quell’ angolo del primo piano. Mi girai e contrariamente a qualche secondo prima il corridoio era infestato dalla nebbia. Qualcosa mi sfiorò i capelli e una voce poco chiara disse: “Che bei capelli biondi, lunghi impressionantemente folti.” Preoccupata, chiusi gli occhi e quando li aprii, la nebbia non c’era più. C’erano solo delle strane stanze marroni. Le osservai per bene da fuori. Erano tutte un po’ misteriose, ma quella che mi incuriosiva di più era l’ultima. Decisi di guardare le altre. E così feci. Sbirciai dalle fessure delle porte. Non c’era niente di strano, solo impiegati con miliardi di documenti a disposizione, che guardavano sconvolti, preoccupati e nervosi i loro pc. Era come un universo parallelo. Avevano il loro distributore di acqua, la loro stampante e i loro bagni. Tutto rigorosamente marrone. Comprese le cornici appese nel loro corridoio. In continuazione sentivo squilli di telefoni. Erano tutti uguali e non parlo solo degli squilli, ma anche degli impiegati. Sembravano come dei robot, già impostati per cosa dire e quale tono usare. Erano tutti perennemente nervosi e non un minuto di più da quando rispondevano alle chiamate, iniziavano ad urlare, uscire dalle propria stanze e ad iniziare a stampare milioni di fogli, sprecando carta inutilmente. I fogli erano tutti uguali. Rimasi senza parole. Così dopo essermi documentata su quel corridoio, andai verso l’ultima misteriosa stanza. Da essa usciva fumo. Questo mi incuriosiva ancora di più. Ero combattuta. Non sapevo se entrare oppure no. D’un tratto le porte si aprì dinnanzi a me. In quel momento, smisi di riflettere e senza pensarci due volte, entrai. C’era davvero molta nebbia, ma riuscii a vedere un uomo. Mi sembrò di conoscerlo già. La nebbia inizio a dissolversi ed incominciai a vedere tutto molto meglio. Sapevo di chi si trattava. William . Non era più nervoso, anzi era molto tranquillo. La porta si chiuse. Contestualmente William prese una bambola. Era identica a me.  Mi si avvicinò e mi strappò un capello, così mi disse: “Ciao, ciao Michelle”. Legò al collo della bambola il mio capello e poi lo tirò con forza. Da quel giorno non rividi più nessuno e scomparvi per sempre.

SCRITTO DA :Claudia P.

Un albero vendicativo

“Ciao a tutti, io mi chiamo Michele Licari, tutti mi giudicano come ragazzo solare, bello e gentile, ma non sono qui su Instagram per questo. Sto aprendo questo profilo per cercare di convincere tutti a combattere contro cause importanti, e visto che la maggior parte delle persone ha il cellulare e i social cerco di convincerli con essi. Noi dobbiamo combattere contro il cambiamento climatico, l’inquinamento, … Ora citerò una ragazza molto importante per noi e per questo pianeta, che in una conferenza disse: <<There is no planet B! There is no planet bla, bla-bla-bla! >>; con questo ci vuole dire che noi ci dobbiamo impegnare per questo pianeta, perché non ci sarà mai un pianeta come questo! Dopo questo lungo post (che spero abbiate letto fin qui), spero che abbiate capito che ci dobbiamo impegnare per noi, i nostri figli e il pianeta. Grazie a tutti e spero che capiate. “ .

Dopo aver scritto questo lungo post mi sentivo bene, speravo di aver ispirato qualcuno.

Un giorno presi un libricino, che era il diario di un mio antenato; diceva che c’era un albero molto strano, che inghiottiva qualunque cosa lo toccasse e per questo non lo aveva tagliato. Lui era un boscaiolo, ma aveva buttato giù una marea di alberi accanto ad esso, anche se io pensai che forse ero l’unico ad adorare la natura nella mia famiglia. Pensai che forse quell’albero fosse arrabbiato con la mia famiglia.

“Miky!” urlò mia mamma.

“Che c’è?” le chiesi.

“Mi ascolti un attimo, ti volevo dire una cosa: visto che ami la natura, a me e a tuo padre è venuta l’idea di fare un campeggio. Ti piacerebbe?”

“Certo che mi piacerebbe!” risposi.

Appena arrivammo al punto del campeggio mi disse se volevamo fare una passeggiata e io risposi di sì. Allora avevamo fatto a turni, prima io e mia mamma, poi io e mio padre e infine mia madre e mio padre (visto che avevo già 16 anni), i miei genitori si divertirono molto, per me invece fu una giornata monotona.

Appena tornarono cominciarono a montare la tenda, dato che era molto grande, poi loro andarono a prendere qualche ramo per accendere un falò.

Loro mangiarono una bistecca surgelata e la cucinarono sul falò, io mangiai semplicemente una ciotola di insalata e dei biscotti. Ci addormentammo circa alle 10:30 di sera.

Il giorno dopo mi svegliai molto stanco anche se non so il perché. I miei genitori rifecero la passeggiata, ma io ero stanco di stare lì fermo e me ne andai anche io a fare una passeggiata. Quando tornai non vidi più la tenda e…Aaaaaaaaaaaaaaa. (l’albero ha mangiato Michele).

SCRITTO DA :Romanò A.

Le sue mani

La squadra di Roberto stava vincendo 7 a 1. Stava per finire la gara. Quando Roberto andò a fare un altro touchdown, inciampò e le sue mani non riuscirono a fermare la brusca caduta; così si spaccò la testa.

“La barella, la barella!” sentì urlare prima di cadere in quel tremendo sonno. Passarono mesi. Il terzo si svegliò con un fortissimo dolore alla testa.

Mi trovavo sul lettino. Nella stanza c’era puzza di bruciato. C’era una finestra dalla quale entrava un po’ di luce che bastava per illuminare quasi tutta la stanza. Però restava un angolo buio, ma qualcosa si intravedeva nella penombra. Quindi, spinto dalla mia curiosità, andai a controllare cosa c’era. Era un lavandino e a destra c’era una saponetta. In quel momento mi girò la testa, caddi a terra e non riuscii a tornare nel lettino. Cercai di strisciare. Con le mie forze riuscii a salirci sopra. Poi vidi delle siringhe. Al loro interno c’era uno strano liquido. Erano sopra un tavolino. Fissai la porta. Nessuno era entrato. Alzai gli occhi al soffitto: vidi dei disegni colorati, credevo che fossero di alcuni bambini.

C’erano disegni di parchi, case, altalene, animali e persone felici.

Nella mia testa in quel preciso momento non pensai nulla e mi accorsi che nella stanza c’era un silenzio di tomba. Ad un certo punto sentii un ronzio, forse un animale che cercava di entrare o uscire dalla finestra. Solo in quel momento notai un tavolino con sopra dei guanti e lì capii che ero in una stanza di un dottore o in una clinica o in un ospedale. All’improvviso nell’aria si mosse qualcosa di piccolo e io cercai di capire cosa fosse. Qualunque cosa fosse ora si stava aggirando attorno a me. Cercai di capire cos’era fissandola, però non ce la feci. Mi alzai e andai verso il lavandino, c’era troppo caldo lì dentro e mi volevo sciacquare la faccia. Arrivai al lavandino e aprii il rubinetto, ma non uscì nulla tranne un sordo rumore agghiacciante. Richiusi il rubinetto e mi voltai girandomi verso il lettino. Ora mi stavo iniziando a sgranchire le gambe e riuscivo a muovermi più velocemente.

“Voglio uscire da questa stanza!” pensai tra me e me.

Volevo iniziare a capire cos’era successo. Feci un salto indietro nel tempo fino alla partita.

Noi stavamo vincendo e li stavamo stracciando. Poi vidi buio. Sentivo le urla di qualcuno che chiedeva aiuto, vidi dei corpi di persone e vidi le mie mani insanguinate. Ero stato io ad ucciderle ed ero in isolamento per questo motivo. Poi non ricordai più nulla, ma iniziai a vedere dei disegni sui muri, stavo impazzendo. Fui interrotto da qualcuno che mi aveva toccato. Non era qualcuno, era una zanzara. Mi ricordai tutto, ero diventato un killer e una zanzara che mi aveva morso dopo il mio primo risveglio, mi aveva riaddormentato. Ero un sociopatico rapito dal governo.

Ora, però, la finestra era chiusa. La zanzara mi aveva morso, lei pian pianino si accasciò a terra e a me iniziò a mancare l’aria.

Intuii tutto, stavo morendo:

“Vi posso essere utile!” dissi con le mie ultime parole.

SCRITTO DA :Romanò V.

UN NUOVO AMICO

“Yuppi! Domani viene Bruno a casa mia. Yuppy!” Ero veramente felice!

Bruno è il mio migliore amico, a lui sono molto affezionato: studiamo, usciamo, giochiamo sempre insieme. Ci siamo conosciuti due anni fa, in prima media, quando lui era in difficoltà per un problema di matematica e lo aiutai. Da lì nacque la nostra amicizia, diventammo inseparabili, ci aiutavamo nello studio e spesso trascorrevamo il tempo libero insieme. Quel venerdì avremmo trascorso un pomeriggio fantastico, pieno di giochi e dopo lui sarebbe rimasto a dormire a casa mia.

Dopo aver finito i noiosissimi compiti, Bruno ed io ci sfidammo a moltissimi giochi: Monopoli, RisiKo e poi Fortnite. A un certo punto, ci venne voglia di andare un po’ alla scoperta della cantina dove mio fratello maggiore aveva lasciato dei vecchi giochi. Lì era buio fitto e con la torcia del cellulare vedemmo subito qualcosa che attirò la nostra attenzione: TAVOLA OUIJA. Questo gioco aveva strane regole e istruzioni: avremmo dovuto mettere una mano in una grande pedina triangolare e chiamare tre volte lo spirito Yuri.

“Bruno, senti qualcosa di strano?”

“No, non succede proprio nulla, meglio andare a dormire”.

Così andammo a cenare, poi ci mettemmo a giocare un po’ col telefono e alla fine andammo a letto. Per scherzare gli dissi “Buonanotte, Yuri!!”.

La mattina seguente feci colazione con latte e biscotti e dopo svegliai Bruno e rimasi di stucco: “Bruno? Sei diverso, molto diverso… hai un aspetto, come dire, insolito…”

Spalancò gli occhi, erano tutti rossi e storti, aveva occhiaie viola, unghie affilate.

Col cuore in gola gli chiesi “ma sei proprio tu?”

Una risata inquietante: “Sono Yuri, un nuovo amico. Giochiamo insieme?”

SCRITTO DA :Rosano A.

Al di fuori di me

20 ottobre 1998

Oggi è stata una domenica come tutte le altre della mia vita. Mi sono svegliato molto presto, esattamente alle ore otto, per far passeggiare il mio amato cane e per sistemare un pò la casa dato che tutta la settimana sono sempre fuori per via del lavoro. Dopo aver fatto tutto ciò, ovvero verso le ore tredici, ho cominciato a preparare il mio pranzo. Innanzitutto, ho preso una padella in cui successivamente ho fatto rosolare della cipolla e del salmone. Poi ho aggiunto del pomodoro e ho lasciato cucinare il tutto a fiamma bassa. Nel frattempo ho deciso di sedermi comodo sul mio bel divano a leggere un libro davvero interessante, ma ho avuto la sensazione di non sentirmi sereno e tranquillo. È stata l’unica volta in tutta la mia vita in cui ho provato questa strana sensazione. Dopo dieci minuti di lettura, mi sono voltato verso destra e ho visto delle ombre sul muro e delle macchie color rosso scarlatto, che ovviamente non appartenevano a me. Così preso dallo spavento, mi sono girato e dietro di me non ho visto nessuno. Tutta questa situazione mi è sembrata davvero anormale perché il mio braccio destro ha iniziato a sanguinare senza un motivo e inoltre non sono riuscito a comprendere di chi fosse quell’altra ombra. Nonostante tutto ciò, ho continuato la preparazione del mio pranzo prendendo la pentola e facendo bollire l’acqua per la pasta. Una volta pronto il mio pranzo, ho iniziato a mangiare guardando la tv, unica mia compagnia domenicale. Ad un tratto però, si è spenta e non sono più riuscito ad accenderla senza capirne la causa. In seguito, la mia giornata ha proseguito il suo normale flusso fino a quando sono andato a letto. A partire da questo momento, ho cominciato a vedere nuovamente le ombre sul muro  e le macchie rosse ma non c’era nessun altro oltre me in quella stanza. Dopo vari momenti di inquietudine ho deciso di spegnere la luce e di addormentarmi, sapendo già che non sarebbe stata una notte tranquilla.

27 ottobre 1998

Oggi è stata un’altra domenica come le precedenti. Ho fatto tutto ciò che faccio sempre: far colazione, passeggiare il cane, sistemare tutta la casa, preparare il pranzo e la cena, leggere e rilassarmi, soprattutto rilassarmi dato che dopo una settimana è quello di cui ho più bisogno. Come la scorsa domenica 20 ottobre, ho iniziato a vedere delle ombre e delle macchie color rosso scarlatto sui muri di casa mia. La novità di questa volta è che le ombre hanno iniziato a seguirmi dappertutto e non sono riuscito a liberarmene. Ha iniziato a sanguinare anche il braccio sinistro ed io ho provato diverse emozioni in  poco tempo senza riuscire a scoprire chi si celasse dietro quelle ombre giganti. In confronto mi sento un esserino minuscolo e debole senza via di scampo. Anche stanotte sono andato a dormire con la mente invasa da questo pensiero soffocante, che mi fa rabbrividire.

4 novembre 1998

Oggi è stata un’altra domenica come le altre, come ormai scrivo su questo diario da tre settimane. Ovviamente ho iniziato, proseguito e terminato la giornata come tutte le settimane. Questa volta ho voluto scoprire a tutti i costi chi si nascondesse dietro quelle ombre e ci sono riuscito. Quest’ombra che mi ha inseguito e mi insegue da tre settimane è lo sdoppiamento della mia personalità, colui che si trova al di fuori di me e si nutre del mio corpo e della mia anima. Colui che si manifesta solo quando sono da solo con me stesso, rilassato e tranquillo tra i miei pensieri. Il gigante megalomane che si contrappone alla mia parte interna debole. Colui che alla fine, non sopportandomi più, completamente invidioso, ha deciso d’impossessarsi di me e di uccidermi. Uccidermi come si fa col peggior nemico, nel modo più cruento possibile, lentamente, con l’arma più potente che si possa avere. Infatti oggi, ho sanguinato più del solito, diventando pallido pallido senza più forze vitali. Adesso devo necessariamente fermarmi, non riesco…

SCRITTO DA :Simone V.

UN REGALO PARTICOLARE

E’ il 24 dicembre del 2021 e si respirava aria di festa per le strade e tutti compravano ancora gli ultimi regali.

In casa di Gianluco fremevano i preparativi per la vigilia di Natale. Era pronto l’albero pieno di addobbi e luci colorate, c’erano anche tanti pacchi di ogni dimensione e Gianluco sperava che in uno di questi avrebbe trovato quello che tanto desiderava: Alexa, un oggetto che già tutti suoi compagni avevano a casa e lui sognava mettere sul comodino.

Dopo la cena con i parenti, Gianluco scartò tutti i regali e finalmente in un pacco piccolo piccolo trovò Alexa.

I giorni seguenti grazie ad Alexa ascoltò tutta la sua musica preferita e impostò la sveglia, anzi le sveglie; quelle per andare a scuola, quella per andare a calcio, quella per non perdere la sua serie preferita e quella per ricordarsi gli appuntamenti per i suoi amici. Inoltre, Gianluco spesso interagiva con lei per chiederle informazioni sui luoghi, sul meteo, sul significato delle parole, sugli orari e molto altro ancora…

Così piano piano, Alexa iniziò a conoscere molto bene Gianluco e i suoi interessi, e a lui quasi quasi Alexa sembrava un’amica.

Un giorno Gianluco partì con la sua famiglia per tre settimane.

Quando tornò a casa andò subito nella sua camera per chiedere ad Alexa un po’ di buona musica.

Cos’era quella strana luce? Era viola! Il dispositivo lampeggiava in modo diverso dal solito… e quella risata? Proveniva proprio da lì… proprio una risata inquietante. Gianluco sentì un brivido lungo la schiena. Senza preavviso Alexa mise delle canzoni e Gianluco non ci fece più caso. Si ricordò che una cosa simile era accaduta anche a un suo amico.

Un giorno però improvvisamente Alexa smise di funzionare. Durante la notte si sentivano delle risate spaventose rimbombare nella stanza. Così Gianluco pieno di terrore chiese ad Alexa cosa stesse succedendo.

“Mi hai lasciata da sola troppo tempo! Adesso il mio padrone è un essere demoniaco e posso entrare nella mente degli sciocchi come te!”.

E poi rimase in silenzio con quella strana lucina accesa che adesso sembrava osservarlo come un occhio viola maligno. Nel buio della notte Gianluco rimase paralizzato e ripensò a quel video su TikToK in cui un ragazzo della sua età era perseguitato da un’altra Alexa. Raccontava in pochi secondi di come Alexa lo svegliasse durante la notte con canzoni e sveglie.

“Adesso ho capito, è tutto vero allora. Non può rimanere qui”.

Così il mattino seguente, Gianluco preparò un pacco e spedì il suo regalo particolare il più lontano possibile.

SCRITTO DA :Salvatore R.

UNA LUNGHISSIMA PAUSA

“Sono in grossi guai”, pensai tra me e me.

Tutta la settimana avevo rimandato l’interrogazione di matematica e non mi ero impegnato a svolgere gli esercizi. Adesso però la prof. non mi avrebbe più concesso del tempo. Era ora di prepararsi bene e così un pomeriggio studiai a più non posso fino a quando mi addormentai sul tavolo.

Quando mi svegliai era ancora buio pesto e non avevo nessuna voglia di alzarmi e soprattutto di andare a scuola e affrontare l’interrogazione di matematica. Dalla sedia passai al letto e decisi che dovevo ancora riposarmi.

La sveglia suonò ricordandomi che era giunta l’ora di alzarmi, ma io mi girai dall’altro lato e tirai su le coperte… sapevo che presto mi avrebbe chiamato anche mia madre. “Salvo, alzati! Arriverai in ritardo!”

Improvvisamente salì sul mio letto Undi, il mio dolce gattino, il più coccolato della famiglia.

“Beato lui!” pensai “Lui sì che può spassarsela a casa fra le coperte e in giardino in mezzo ai fiori”.  Mentre rimuginavo questi pensieri, caddi improvvisamente in un sonno profondo come se fosse notte. Sognavo quello che avevo desiderato: ero in mezzo a un prato fiorito a prendere il sole. Quando mi svegliai cominciai a stiracchiarmi… “Dov’erano le mie braccia? cos’erano quei peli bianchi e arancioni su tutto il corpo? E perché non mi usciva più la voce?” Con orrore vidi che avevo la coda! Nel frattempo sentii i passi di mia madre che aprì la porta: “Undi, esci fuori, fai una bella passeggiata perché noi dobbiamo andare a scuola!”.

E fu così che la mia pausa dalla matematica diventò lunghissima. Mi mancò per sempre la scuola e al posto della mia adorata carbonara mangiavo pappe puzzolenti e schifose.

SCRITTO DA :Salvatore R.

Primo giorno di scuola

“Mamma, no ti prego!” Piagnucolai! “Steve ti ho detto che non possiamo fare altro e ora muoviti che siamo in ritardo!” Disse la mamma.

Due lacrime di nostalgia mi rigarono il viso. Ripensavo alla vecchia città, al trasferimento. Com’era bella l’Inghilterra. Non ebbi mai capito come la morte della regina Elisabetta II avesse potuto influire sul nostro trasferimento. Il giorno del suo funerale io e mia madre eravamo sull’aereo per il Canada. Ho il vivo ricordo di quando, incollato al finestrino dell’aereo, osservavo l’immensa Inghilterra. Tutto il mio mondo, fino allora, si stava allontanando tra nuvole azzurrate come la schiuma frizzante del mare a mezzogiorno.

La scuola nuova era una di quelle grigie, come la nebbia, e azzurre, con il tetto bianco come il latte fresco; finestre rettangolari pulite alla perfezione e un ampio e lucido campetto verde. Il corridoio era tempestato di armadietti colorati e di gente curiosa che ridacchiava per qualunque cosa.

Una signora di mezza età con una salopette blu e una camicetta di lino mi venne incontro porgendomi delle chiavi luccicanti: “Queste sono le chiavi del tuo armadietto.” Esclamò. Ero un po’ titubante, ma nonostante ciò strisciai il dito fino al mio nome e aprii l’armadietto di colore giallo con delle rifiniture rosse. Accanto a me c’era una ragazza con il viso coperto da ciocche di capelli castano chiaro come le nocciole alla luce del sole e un libro di nome: Cuori di carta.

“Ciao.” La fissai disinvolto. La ragazza mi sfiorò con lo sguardo e fece un cenno con la testa, poi chiuse l’armadietto e andò in direzione dell’aula di chimica.

“Ei aspetta!” Esclamai: “Come ti chiami? Io sono Steve. Mi sono appena trasferito qui in Canada, non conosco nessuno. A proposito, ho visto che a prima ora hai chimica, anche io!”

Cercavo di fare conoscenza con quella ragazza che sembrava timida.

“Ciao, mi chiamo Nancy. Anch’io sono nuova. E sì, ho chimica. Ci sediamo vicini?”

Risposi: “Certo!” Entusiasta.” Comincia bene!” Pensai!

L’aula di chimica era di colore verdino e grigio. Occupammo il banco in terza fila. Il professore cominció a parlare:

“Ciao a tutti. Oggi parliamo della Periplaneta Americana.” Non capivo: “Cosa?” sussurrai.

“Gli scarafaggi! Sì, in questo periodo questa specie di blatte sono sbucate dai tombini di ogni vicolo del paese. Oggi parliamo di come evitarle e dello spray che stanno progettando per annientarle.”

La lezione di chimica era stata raccapricciante. Ora avevo l’entomofobia, la fobia degli scarafaggi.

Corsi verso il mio armadietto insieme a Nancy. Ormai eravamo amici. Mi aveva parlato della sua famiglia, dei suoi amici, era simpat..: “Ma che sta succedendo!” Urlai. Nancy gridò: “Non lo so!”

Tutti urlavano, oscillavano, saltavano, si grattavano: “Scarafaggi.” Sussurrai.

Nancy esclamò: “Cosa!!! Presto! Saliamo sugli armadietti ed entriamo nel condotto di ventilazione.” Nancy era intelligente. L’ascoltai.

Da lontano sentivo un marciare di zampette. Il pavimento brulicava di scarafaggi. Era un tappeto marrone. Ormai barcollavamo sugli armadietti. Spingi giù la grata del condotto di ventilazione e io e Nancy si trascinammo dentro. Eravamo salvi, soli e senza via d’uscita. Fissavo gli occhi penetranti di Nancy, color sottobosco.

Sentii un leggero fruscio provenire dal fondo del condotto. Erano arrivati. Percepii un formicolio che partiva dai talloni alla schiena.

“Nancy!!!” Urlai. Lei era già abbastanza paralizzata per il fruscio che aveva sentito poco prima.

“Steve! No!” Ormai erano dappertutto. Anche Nancy era stata attaccata. Stavo impazzendo. Un lurido scarafaggio mi stava per entrare in bocca.

Movimentato come primo giorno di scuola vero?

Non sapevo ancora che sarebbe stato il primo ed ultimo…

SCRITTO DA :Emanuele T.

La strage

Tutto cominciò il mio primo giorno di college in Gran Bretagna, ovvero il 6 settembre del 1997. Quella mattina mia madre mi svegliò all’alba e mi urlò: “Amore, svegliati o farai tardi! Oggi è il tuo primo giorno di college”!

Dopo queste parole, fui costretta ad alzarmi in fretta pensando di odiarla perché a quell’età mi trattava ancora come se fossi una bambina e a me questo non andava per niente bene, volevo essere indipendente ed avere i miei spazi. Così decisi di fare colazione, di lavarmi e di vestirmi per raggiungere il college.

Quando arrivai, mi accorsi di essere completamente da sola e di non conoscere nessuno! Ad essere sincera, all’inizio tutto ciò mi turbò un pò ma pensandoci bene non avevo niente di cui preoccuparmi perché ero una ragazza abbastanza estroversa e socievole.

I giorni passarono e finalmente la situazione stava iniziando a cambiare. Un venerdì mattina, fortunatamente conobbi un gruppo di tre ragazzi e due ragazze molto simpatici e socievoli che mi hanno fatto sentire come se fossi a casa mia. Uno di questi tre, ovvero Simon, diventò il mio fidanzato. Con lui mi divertivo moltissimo e passavo dei momenti indimenticabili, non mi faceva mancare nulla! L’unica con cui non andavo d’accordo in quel gruppo era Ariel perché lei non riusciva a sopportare la mia presenza. In realtà non sono mai riuscita a capire il motivo ma probabilmente era invidiosa della mia persona.                                                 A causa di tutto ciò, dopo due mesi che mi conobbe decise di abbandonare il nostro gruppo e di unirsi al gruppo dei nerd. Ogni pomeriggio Ariel e Thomas si riunivano a casa di quest’ultimo per parlare del gruppo di bulli a cui apparteneva fino a poco tempo prima.

Un bel giorno, insieme al suo nuovo gruppo, decise di vendicarsi del vecchio, organizzando una sparatoria all’interno della scuola che causò la morte di tutti gli studenti, ad eccezione di Max, appartenente al gruppo dei bulli, al quale sfortunatamente dovettero amputare entrambe le gambe. Inoltre, avevano anche deciso che, dopo aver ucciso tutti gli altri, si sarebbero dovuti suicidare ma questo non accadde a causa della stessa Ariel che si tirò indietro all’ultimo.

Mi ricordo bene quel giorno, anche se spesso ho cercato di dimenticarlo per sempre dalla mia mente. Fu davvero una strage! Tutti che cercavano di scappare, le aule e i corridoi pieni di sangue, i volti pieni di terrore e ansia. Fortunatamente, anche se in realtà non so se è così, sono riuscita a scappare e a sopravvivere, ma non ho parlato di me perché è come se quel giorno fossi morta per sempre. Non sono ancora riuscita a superare tutto quell’orrore, quell’odio che possa provare un essere umano. Sono convinta che oggi tutti gli studenti siano ancora con me. Riesco a vederli dappertutto, in quei corridoi, all’interno delle aule, per strada e addirittura a casa mia. Riesco a parlarci e loro sono l’unica mia salvezza. Mi trasmettono calore e serenità. Vivo grazie alla loro presenza! Le altre persone non riescono a credere a tutto ciò che dico e pensano che non stia bene psicologicamente, ma invece io riesco a sopravvivere per farli continuare a vivere con me. Anzi, sono riuscita a diventare una grande giornalista per avere più credibilità e far arrestare Ariel e i suoi amici che hanno commesso questa terribile strage a cui non ci sarà mai più rimedio. Tutti gli studenti si congratulano e mi ringraziano sempre per quello che faccio ogni per loro. L’altro giorno, Simon mi ha fatto pure un regalo che per me ha una grande importanza. Ha strappato il suo cuore e l’ha regalato a me per sempre.

SCRITTO DA : Simone V.